L’accordo politico raggiunto sulla Pac il 26 giugno scorso ha introdotto la programmazione produttiva per i prosciutti a denominazione di origine dopo che il “pacchetto latte” la aveva concessa per i formaggi. Si tratta sicuramente di uno strumento utile per i Consorzi di tutela dei prosciutti italiani, soprattutto alla luce delle quantità che annualmente vengono certificate e immesse sul mercato e che non trovano paragoni con i prosciutti Dop degli altri paesi europei. Basti pensare che il più “grande” prosciutto Dop spagnolo, il Jamon de Teruel, certifica ogni anno 470.000 cosce contro il Parma che annualmente supera invece i 9 milioni di prosciutti marchiati.

Considerando che di questi meno del 30% finisce all’estero (ma per il San Daniele Dop la propensione all’export è inferiore al 15% su un totale di 2,6 milioni di prosciutti), si comprende l’utilità di uno strumento come la programmazione produttiva che può, alla luce di quanto già sperimentato dai formaggi come Grana Padano e Parmigiano Reggiano, orientare l’offerta alla domanda, evitando così di rompere quel sottile equilibrio del mercato interno che nel passato ha condotto a situazioni di crisi anche pesanti per le imprese di produzione.
Senza contare gli impatti che poi si riversano su tutta la filiera: prosciutti e salumi Dop utilizzano quasi il 70% sui suini macellati in Italia mentre i formaggi Dop assorbono la metà del latte vaccino prodotto nel nostro Paese.


Cosa è cambiato dal 2000
La programmazione produttiva rappresenta l’ultimo – in ordine di tempo - degli interventi normativi che l’Unione Europea ha introdotto per aiutare i produttori comunitari a migliorare la qualità delle proprie produzioni agroalimentari: una politica iniziata nel 1992 con il Regolamento CE 2081 istitutivo delle Dop e Igp e continuamente “aggiornata”.

Un bilancio degli ultimi dieci anni mostra come questi provvedimenti normativi abbiano indubbiamente modificato la fisionomia dell’agricoltura europea: in appena dodici anni si è passati da poco più di 600 prodotti Dop e Igp ad oltre 1.100, arrivando a generare un fatturato a livello europeo di quasi 16 miliardi di euro.

L'Italia ha iscritto nel registro comunitario più di 250 prodotti. Rispetto al 2000, la crescita è pari al 133%. Il valore alla produzione è di circa 6,5 miliardi di euro contro i 3,8 del 2000 e possono vantare una compagine di 6.800 imprese di trasformazione contro le 3.200 del 2000 nonché un export di 1,9 miliardi contro i 950 milioni dello stesso anno.


L'importanza dell'export
Ed è proprio sul fronte delle esportazioni che si gioca la partita più importante per lo sviluppo di questi prodotti.
Purtroppo però il sentiero sembra essere costellato da molti ostacoli. Uno di questi riguarda l’annoso problema legato all’imitazione e contraffazione.
Denis Pantini, responsabile Agricoltura e industria alimentare Nomisma, ricorda come “i prodotti Dop/Igp italiani trovano spesso barriere all’entrata nei mercati extra-UE determinate da marchi commerciali registrati ed evocativi della denominazione. I mercati Ue pesano per quasi il 33% sul valore dell’export dei prodotti Dop/Igp italiani. Per questo dopo i tentativi infruttuosi in sede Wto si sta riconsiderando l’ipotesi della “short list” da inserire in appositi accordi bilaterali”. Sempre per Pantini “questa non è una cattiva idea visto che i prodotti Dop/Igp italiani che vantano un export extra Ue superiore al 5% del proprio fatturato (e per un valore “significativo” e cioè superiore ai 10 milioni di euro) ammontano a circa una decina”.

Restano strategici anche gli interventi sull’organizzazione produttiva e commerciale delle imprese nonché le politiche sulla promozione e informazione rivolte al consumatore sui prodotti e sui loghi Dop/Igp, volte a favorire – in particolare per le denominazioni “più piccole” – la penetrazione sui mercati esteri, per le quali più che la tutela è infatti la capacità di vendere fuori dall’Italia la priorità più pressante.