Secondo i dati Confcommercio del primo trimestre 2013, 6 famiglie su 10 fanno la spesa al discount, mentre calano drasticamente ristoranti (-5%) e pasticcerie (-11 per cento). Cosa ci si deve attendere?
“La crisi c’è, innegabilmente, ed è chiaro che in questa situazione si cerca di risparmiare più facilmente in due ambiti: l’ abbigliamento e il cibo, in cui anche qui è facile distinguere ciò che serve dal superfluo”.
Il cibo è dunque un di più?
“È intuitivo che, in accordo con la necessità di limitare il superfluo, compresi i divertimenti, anche il cibo ne risente. Ovvio. Ma non ritengo che questa tendenza vada direttamente a discapito della qualità. Gli italiani hanno fatto un lungo training di acquisizione di regole alimentari, a volte corrette, altre meno.
Ma è difficile che uno ad esempio si mangi pane e lardo, anche se il lardo costa meno del prosciutto. Per via del colesterolo, che oggi è un tabù ben radicato nella cultura alimentare e salutistica”.
Se la crisi non ha intaccato la qualità, dove è andata a mordere?
“Più che sulla qualità ha inciso sulla marca. Oggi però dobbiamo uscire dall’idea della marca come paladino della qualità, perché non è vero. Ci sono aziende che lavorano anche per il discount. Con la marca paghiamo un di più rassicurante, ma va sfatato il rapporto qualità-marca. Le private label sono accettate e portano in campo le responsabilità del produttore. Se prendiamo i prodotti conservati e in scatola, ad esempio, è bene sapere che le linee produttive di una determinata marca che produce anche per le private label è la medesima, non hanno processi produttivi differenti o di serie B”.
La spesa si è spostata sui discount. In che misura il discount è antitetico alla qualità?
“Sul fresco e i surgelati bisogna pensare che il discount ha avuto una brutta immagine in Italia, perché, arrivato negli anni Ottanta, è degenerato in qualcosa di molto dozzinale. Ma i discount che nascono in Germania sono di tutto rispetto. E così molte catene di discount che non sono morte e sono attive oggi non sono affatto sinonimo di cattiva qualità. Nel discount non trovi l’immagine, la confezione, gli allettamenti, trovi gli scaffali nudi e spogli: manca l’experience, che però è il contorno”.
Quindi è superficiale demonizzare i discount?
“Superficiale, ma anche sbagliato. Se prendiamo ad esempio il segmento del fresco ci sono situazioni in cui il discount offre più opportunità di quanto non faccia la grande distribuzione. Il consumatore, spinto dalla necessità di risparmiare, deve tenere in mente il rapporto fra denaro, tempo ed energia”.
E sarebbe?
“Quando c’è più denaro si tende a spendere di più e investire meno tempo e meno energia per fare la spesa. Vado nel negozio di prossimità o nel supermercato sotto casa, in momenti di crisi cerco l’offerta, investo più tempo e meno denaro”.
L’Italia è il primo Paese europeo per numero di prodotti Dop e Igp. Eppure, la maggior parte dei volumi di vendita all’estero la fanno solamente pochi prodotti. Come migliorare?
“Grana padano, Parmigiano reggiano, Prosciutto di Parma e San Daniele si salvano sull’export perché sono agguerriti, ma servono politiche aggressive e il supporto, che spesso non c’è o non è coordinato, del sistema Paese: ministeri, camere di commercio estere, l’Ice”.
Non si fa abbastanza promozione?
“No, e nel contesto si penalizzano anche i piccoli produttori, che potrebbero avere le carte in regola per esportare e non riescono. Servono istituzioni più friendly. E perché non appoggiarsi a organizzazioni intermedie, come potrebbe essere la Coldiretti, che si fanno promotori di un impegno sistematico per studiare realmente la nostra penetrazione all’estero”.
L’export dell’agroalimentare italiano ha superato i 31 miliardi di euro, le contraffazioni si aggirano oltre i 60 miliardi. Come interpreta questo dato?
“Parto da una doverosa premessa: il made in Italy arriva da casa, l’Italian food è caratterizzato da percorsi produttivi che per molti aspetti seguono il capitolato della produzione dei prodotti italiani, ma non è vero Made in Italy. È la prova provata che se l’Italia facesse una valida politica di esportazione, l’Italian sounding si scioglie come neve al sole. I numeri per crescere ci sono”.
I numeri per crescere ci sono, ma talvolta non sono sufficienti. Pensiamo a Paesi come la Cina, che chiedono volumi che l’Italia non sempre riesce a garantire.
“Certamente. Significa che in questi frangenti il made in Italy può adottare le politiche dei produttori di nicchia, con elevata qualità e prezzi di conseguenza adeguati”.
In tempi di crisi le riviste di cucina aumentano i propri lettori, oggi si assiste al boom dei programmi di cucina. Per quale motivo?
“C’è un rapporto inversamente proporzionale fra chi ne parla, chi guarda e chi lo fa. Un po’ come quando si scopa poco e si legge molto playboy. Chi pratica cucina ha un interesse abbastanza limitato per le riviste di cucina, semmai c’è uno scambio di ricette su piatti provati o si accende la curiosità per qualcosa che hai mangiato in un’altra città, in un’altra regione, all’estero".
In televisione non è così?
“Zero. In televisione vediamo trasmissioni di cucina che chiunque sia stato in cucina cinque volte nella sua vita e abbia preparato da mangiare per dodici persone, capisce chiaramente che chi sta dall’altra parte dello schermo non ne sa mezza. Ma così si ha un approccio alla cucina assolutamente devastante”.
Lei ha anche fondato il movimento di home food delle Cesarine, rivolto a valorizzare le ricette della tradizione e del territorio. Come deve essere l’approccio alla cucina e al cibo?
“La cucina è attenzione alla materia, il rapporto col cibo è un rapporto fatto di tempi e di attenzione. Il cibo va curato come un bambino, mentre le trasmissioni televisive sovvertono questa relazione naturale e lanciano un messaggio sbagliato, che è: lo puoi fare anche se non sai fare niente e in tempi rapidi. Ma così si snatura il rapporto col cibo, è un errore”.