Dalle relazioni tecniche che si sono susseguite alle conclusioni della presidente della Sezione di Prodotto vitivinicola di Confagricoltura Piacenza, Chiara Azzali, sono emersi almeno due concetti chiave: la ricerca sulla vite richiede tempi lunghi e non darà mai un risultato assoluto e gli iter autorizzativi di un settore sovra regolamentato come quello vitivinicolo rischiano di porre fuori mercato le aziende.
"E' vero che oggi abbiamo a disposizione delle varietà di vite resistenti ad alcuni patogeni - ha spiegato Raffaele Testolin dell'Università di Udine -, ma è altrettanto vero che non si tratta di una resistenza assoluta e in qualunque condizione".
Certo, ha sottolineato l'esperto, il risparmio economico in trattamenti per l'utilizzo di varietà resistenti ad oidio e peronospora, rispetto a varietà non resistenti si può calcolare attorno ai mille euro ad ettaro all'anno (leggermente meno per il Centro e il Sud Italia). Si tratta dunque di una scelta, quella di impiantare questa tipologia di viti, che l'imprenditore deve poter considerare, data la convenienza economica e il minor impatto ambientale (i trattamenti si riducono dell'80%). Rispetto alla tutela delle varietà tradizionali, già oggi il 50% dei 51mila ettari a vigneto in Italia è costituito da dieci varietà.
E' quindi giusto consentire la tutela dei vitigni autoctoni, ma senza che ciò vada a ingessare le scelte dei produttori. Stando fermi - hanno concordato unanimemente i relatori - spariranno le aree viticole di minor pregio e insieme a queste anche le loro varietà locali.
"Dobbiamo pensare a cosa vorrà il mercato - ha sottolineato Eugenio Sartori, direttore dei Vivai cooperativi Rauscedo - senza innovazione e stando solo a guardare, il comparto muore da solo". Addirittura, ha spiegato Sartori, non è da sottovalutare neppure la scelta dei nomi delle varietà perché ad esse può esserne legata la fortuna commerciale.
Una mattinata intensa che ha visto Stefano Poni, direttore del dipartimento di Scienze delle produzioni vegetali sostenibili dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, coordinare gli interventi e fare il punto sull'innovazione in viticoltura e Vittorio Rossi, professore ordinario dell'ateneo piacentino, parlare di Plasmopora viticola.
E ancora, Roberto Miravalle, coordinatore del master "Gestione del sistema vitivinicolo" della Facoltà d'Agraria dell'Università di Milano, ha approfondito il possibile ruolo delle varietà resistenti nella viticoltura dell'Emilia Romagna.
A Roberta Chiarini, responsabile del Servizio organizzazioni di mercato e sinergie di filiera dell'assessorato Agricoltura della Regione Emilia Romagna, e a Chiara Azzali sono invece spettate le conclusioni.
"Noi in regione - ha detto Roberta Chiarini - siamo i primi a essere coinvolti in passaggi che divengono talvolta meramente burocratici, ma da parte nostra non c'è alcun atteggiamento ostruzionistico, anzi, invito i produttori ad essere sempre attivi e presenti nei contatti con la regione".
"La mia è una domanda e insieme un messaggio per la parte politica: cosa impedisce al nostro paese di adottare un sistema come quello francese per rendere utilizzabili le nuove varietà di vite? Se è un regolamento ad essere così ostativo, che lo si tolga perché nel frattempo le nostre imprese affrontano un mercato agguerrito con uno svantaggio competitivo" ha invece affermato Chiara Azzali.
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Fonte: Confagricoltura Piacenza