L’Italia è infatti il secondo produttore mondiale (dopo la Turchia) del prezioso frutto, con una produzione annuale che oltrepassa le 130mila tonnellate. La nostra produzione però non basta e per alimentare la nostra industria dolciaria specializzata ci troviamo ad importare grandi quantitativi di prodotto - talora di qualità dubbia - dall’estero.
La grande diffusione agricola della nocciola nella nostra penisola è ancestrale e la biodiversità espressa è incalcolabile, con un numero di varietà rilevantissimo che va poi a comporre anche le tre denominazioni d’origine europee già concesse al nostro paese.
Non mi stanco di segnalare questo settore per almeno due ragioni. La prima è che per la nostra agricoltura occorre occupare le così dette “finestre” di importazione, ovvero cercare di limitare l'importazione di beni che possono invece dare un adeguato valore aggiunto ai produttori e ai trasformatori (e tanto meglio se le due figure coincidono). La nocciola come ben sappiamo può essere trasformata in dolci e soprattutto in creme sia industriali sia artigianali: in quest’ultimo caso vi posso garantire che l'esperienza di degustazione di creme alla nocciola fabbricate da agricoltori-pasticceri l’anno scorso fu per me un'esperienza quasi mistica.
In secondo luogo, bisogna ricordare che la nocciola, come tante altre produzioni tipiche, può essere il perno di un'attività di marketing territoriale per valorizzare tanti piccoli borghi anche dal punto di vista turistico.
Ne è la testimonianza la rimarchevole attività della associazione delle Città della Nocciola (condotta, va doverosamente ricordato, dagli infaticabili Rosario D’Acunto e Irma Brizi).
Un turismo slow che vedrete, anche complice la pandemia, svilupperà non poco nei prossimi anni.