La Food innovation global mission si inserisce nel master di secondo livello Food innovation program, promosso dall'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, dal Future food institute di Bologna e dall'Institute for the future di Palo Alto.
"Questi quattordici ragazzi, provenienti da dodici paesi, hanno potuto toccare come il modo di produrre e consumare il cibo sta cambiando", spiega ad AgroNotizie Sara Roversi, ideatrice del Food innovation program e cofondatrice di You can group, una società attiva nello sviluppo di format innovativi nel mondo del cibo.
"Alla fine di questo tour, a cui mancano ancora le tappe di Londra e Tel Aviv, gli studenti potranno tornare nei loro paesi di origine o rimanere in Italia per dare il loro contributo ad innovare il mondo del cibo".
La vostra prima tappa, a metà gennaio, è stata l'Olanda con Amsterdam e Maastricht, che cosa vi ha colpito?
"In Olanda c'è una elevata attenzione allo spreco di cibo. Si studiano modi per ridurlo all'origine, ma anche per utilizzare ciò che altrimenti finirebbe nella spazzatura. Ci sono ristoranti di altissimo livello dove si cucinano piatti solo con gli scarti. In Italia dovremmo alzare l'attenzione sul food waste e imparare ad avere un approccio più libero alla ricerca scientifica".
Che cosa intendi per approccio libero?
"Non mettere vincoli all'immaginazione. Per noi fare ricerca sulla carne in vitro è impensabile. Mentre in Olanda, forse per il fatto di non avere food tradition forti come in Italia, si sentono più liberi di osare".
L'Italia è un paese troppo tradizionalista?
"La tradizione culinaria italiana è la nostra grande ricchezza che ci invidia tutto il mondo, è rispettata e presa ad esempio. L'Italian food è considerato una eccellenza globale. Questo però non ci deve impedire di provare strade nuove".
Da Amsterdam siete volati a Boston e New York, che ambiente avete trovato?
"A Boston siamo stati all'Mit e a visitare il laboratorio di Carlo Ratti, dove si guarda al futuro della distribuzione del cibo. A New York abbiamo visitato la più grande vertical farm del mondo, la AeroFarms, dove si sperimenta la possibilità di produrre cibo direttamente nelle nostre metropoli attraverso tecnologie come l'aeroponica".
L'urban farming è diffuso nella Grande Mela?
"Si sta diffondendo. Abbiamo visitato una scuola dove in mensa è stata installata una coltivazione di insalata idroponica. Studenti e insegnanti fanno crescere la verdura che poi mangeranno. Questo è importantissimo per insegnare ai ragazzi il valore del cibo che infatti non viene più sprecato, ma consumato volentieri dagli studenti-agricoltori".
Poi la California, un ritorno alle origini?
"La Silicon Valley è parte della nostra storia ed è il luogo dove hanno sede molti dei nostri partner. Siamo stati da Google, Airbnb, Facebook e all'University of California Davis. Tra i vari luoghi visitati anche il ristorante che ha eliminato l'interazione con il consumatore nella fase di vendita concentrandosi sulla preparazione del piatto. O la caffetteria completamente robotizzata. Nella Silicon Valley si stanno sperimentando incredibili nuovi modelli di business".
Dagli Usa al Giappone, quali suggestioni avete raccolto a Kyoto e Osaka?
"A Kyoto abbiamo studiato la filiera del tè verde e quella della carne kobe e wagyu. Ci ha colpito la ritualità che pervade tutto ciò che riguarda il cibo. Il Giappone ha un forte legame con le tradizioni, ma è anche capace di guardare al futuro con le radici nel passato. Mentre a Seoul i due grandi temi sono stati la fermentazione e la ricerca".
La fermentazione come tipo di cucina?
"E' un tipo di approccio alla preparazione dei cibi che mette al centro il processo fermentativo. In Corea è molto diffuso, ma sta spopolando in tutto il mondo. A Seoul abbiamo anche capito lo straordinario lavoro del nostro corpo diplomatico all'interno del quale i rappresentanti scientifici hanno l'arduo compito di fare ricerca per permettere l'import di prodotti agroalimentari italiani".
Da Seoul siete passati a Shanghai, la città più popolosa e ricca della Cina. Che cosa vi ha colpito?
"Shanghai è una città spettacolare che ha tutto: povertà e ricchezza, arretratezza e futuro. C'è una vasta comunità di giovani cinesi che ha studiato all'estero e che ora è tornata con idee innovative e dirompenti. Se a questa risorsa umana uniamo il fervente mondo imprenditoriale e la facilità di trovare investitori, capiamo come Shangahi sia una città da cui dobbiamo aspettarci molto".
Nell'immaginario comune la Cina è la patria delle merci scadenti e a basso costo. A Shanghai c'è attenzione alla qualità del cibo?
"In Cina il problema della sicurezza alimentare è esploso negli ultimi anni e si sta facendo moltissimo per garantire la tracciabilità degli alimenti. Per questo si investe in tecnologia".
L'ultima tappa è stata Singapore, che cosa vi è rimasto?
"Per ragioni storiche Singapore è sempre stata al centro dei commerci mondiali. E' una città internazionale, in cui tutti parlano inglese, molto ricca e attenta al cibo, con standard nella ristorazione altissimi. Ad oggi è definita la capitale del food".
Qualche giorno fa siete tornati tutti a Bologna in attesa di ripartire per le due ultime tappe: Londra e Tel Aviv. Una volta finito il master dove andranno gli studenti?
"Il nostro obiettivo è fornirgli le competenze trasversali per immaginare e creare il futuro del cibo. Potranno tornare in patria o restare nella nostra Food Valley, fondare startup o entrare in aziende strutturate. Per innovare serve una conoscenza vasta di tutta la filiera agroalimentare e una apertura mentale che noi speriamo di avergli dato".