E’ caldo e le vacche reagiscono riducendo la produzione di latte. Forse anche per questo il prezzo dà qualche timido segnale di ripresa, almeno per le partite “spot”, quelle compravendute fuori da accordi commerciali fra allevatori e industrie. Ma siamo ancora sotto i 30 eurocent, che non bastano nemmeno a coprire le spese di produzione. Una situazione, questa della crisi del latte, che si protrae ormai da mesi e che ha indotto gli allevatori, tramite Coldiretti, ad alzare la voce. Prima al Brennero per lamentare che molto prodotto estero viene naturalizzato Made in Italy appena varca le frontiere. Poi anche nei porti di Ravenna e di Ancona, perché il problema delle importazioni fuori controllo riguarda un po’ tutte le materie prime dell’agroalimentare. E la protesta si è spinta sin sotto le mura dei “Palazzi”, da quello del Governo a quelli delle istituzioni regionali, dalla Lombardia alla Sicilia. E sarà anche per la presenza al valico del ministro Zaia a sostenere le ragioni degli allevatori,  ma questa volta le proteste degli allevatori hanno avuto una buona eco sui mezzi di informazione. E si sa, più se ne parla e più il problema viene preso sul serio.

 

Ci vuole l'origine in etichetta

Ma quali sono le richieste degli allevatori? La più importante è certamente quella di mettere in etichetta l’origine dei prodotti che arrivano al consumatore. Questa volta tocca al latte a lunga conservazione, ma domani si potrebbe estendere anche ad altri settori. Il latte anzitutto perché ne produciamo per 11 milioni di tonnellate, ma ne importiamo oltre 8 milioni per soddisfare la richiesta del consumo interno. Non importiamo solo latte, ma anche polvere di latte, cagliate e caseinati ed altri semilavorati utilizzati nelle trasformazioni casearie. Il timore è che anche questi prodotti finiscano sul mercato come “nostrani”, avvilendo le produzioni veramente italiane come i formaggi a marchio Dop. Indicando l'origine in etichetta si vorrebbe dare al consumatore facoltà di scelta fra ciò che è italiano e ciò che, anche se sicuro e controllato, non lo è. E si spera che le preferenze vadano ovviamente al made in Italy, magari pagato qualcosa in più. Quanto basta per dare al latte italiano quei pochi centesimi in più rispetto ai prezzi “stracciati” del latte che arriva dalla Francia (25,70 eurocent al litro), dalla Germania (25,50 eurocent al litro) o peggio ancora dai paesi dell’Est europeo come la Lituania (13,50 eurocent al litro) o la Lettonia (16,85 eurocent al litro). Prezzi con i quali gli allevatori italiani non potranno mai competere, ma che possono fronteggiare se il confronto è sulla qualità. Che va pagata.

 

Favorevoli e contrari

Questa dell’etichetta d’origine è però una battaglia difficile. Il ministro dell’Agricoltura se ne è fatto paladino e ha presentato in questi giorni un decreto ministeriale. Che vedrà opporsi le industrie del settore alimentare che già in occasione dell’assemblea di Federalimentare (ne abbiamo parlato su Agronotizie) hanno ribadito il loro convinto no. Contraria all’etichetta con l’origine è anche il Commissario Ue, Mariann Fischer Boel. Mettere l’origine in etichetta, questa in breve la tesi sostenuta a Bruxelles, equivale a introdurre dei paletti alla libera circolazione delle merci, cosa che va contro i principi ispiratori del sodalizio comunitario. Preso atto che la crisi del latte non è solo un problema italiano, ma riguarda tutti i Paesi della Ue, Bruxelles ha deciso invece di risolvere la crisi avvalendosi dei classici strumenti come l'intervento, gli aiuti all'ammasso privato e le restituzioni all'esportazione. Sembra già presa la decisione di estendere il periodo per l’acquisto all’intervvento di burro e latte scremato in polvere fino alla fine del mese di novembre 2009. ALtra decisione è quella di abolire il prezzo minimo (230 € al quintale) a cui i formaggi possono beneficiare delle restituzioni all'esportazione. Allo studio ci sono pure iniziative promozionali per i prodotti caseari e incentivi all'abbandono volontario della produzione.

Solo su quest'ultimo punto c'è coincidenza con le tesi sostenute da Zaia che propone un piano di abbandono destinato alle aziende che già oggi si trovano in una condizione di marginalità. Bocciati invece gli interventi della Ue che riguardano latte in polvere e burro, iniziative utili alle zootecnie del nord Europa, ma non all'Italia, dove semmai sarebbe di qualche aiuto aprire l'intervento ai formaggi.

 

Abbandono, e poi?

Mentre si “consuma” questo braccio di ferro fra Italia e Bruxelles, le iniziative del ministero dell'Agricoltura raccolgono il consenso di Coldiretti che al contempo giudica come insufficienti le misure decise a Bruxelles. Sulla stessa lunghezza d'onda anche la posizione di Confagricoltura e di Cia, seppure con sfumature diverse. Posizioni che rafforzano la posizione italiana, ma che non cambiano le prospettive sugli esiti e sulla durata della crisi del latte. Il decreto ministeriale sull'etichettatura avrà vita difficile e forse soccomberà sotto il fuoco incrociato di Bruxelles e delle industrie del settore. In ogni caso la sua influenza sul mercato è destinata ad avere tempi lunghi. Tempi più rapidi si possono ipotizzare per il piano di abbandono, che piace anche alla Ue. Nelle attuali condizioni di mercato è peraltro inevitabile che molte aziende zootecniche siano costrette a chiudere, con o senza incentivi. Accadrà in Italia, ma anche negli altri Paesi. Con la riduzione di offerta il prezzo potrà forse riprendersi. Ma le stalle chiuse non riapriranno. E il latte che beviamo sarà sempre più made in Ue, ma non in Italy. Quel poco che resterà se lo contenderanno le industrie che fanno formaggi Dop. Che finalmente, si spera, lo pagheranno quanto vale.