Quell’esperienza dimostrava una volta di più la tendenza al liberismo anarcoide che inebria certe menti, le quali si sono convinte di poter dire e fare quello che più gli pare perché loro sono i buoni a prescindere, mentre tutti gli altri sono altrettanto a prescindere i “kattivi”. Il fatto di non usare molecole di sintesi nei propri vigneti, né di usare lieviti selezionati in cantina, pare aver cioè generato in alcune menti l’erronea convinzione di essere una sorta di razza eletta, scevra perfino dai più banali doveri di tipo normativo e burocratico.
Il medesimo “complesso di superiorità” che anima certi buffi soggetti li porta anche a puntare perennemente il dito sui prodotti altrui, accusati di contenere veleni di ogni sorta e quindi pericolosi per la salute e per l’ambiente. Su quest’ultimo aspetto si discuterà nella prossima e ultima puntata della serie, mentre quella odierna sarà invece dedicata alle supposte problematiche sanitarie legate al consumo di vino.
Bere vino avvelena di pesticidi? No, tutt’altro.
Nel 2012, secondo i dati del monitoraggio residui, il 70,4% dei campioni di vino analizzati sarebbe stato esente da tracce chimiche. In pratica, sette bicchieri di vino su dieci non contenevano tracce di agrofarmaci. Tradotto in numeri, su 604 campioni ben 425 erano a residuo zero, 93 contenevano un solo residuo, 86 presentavano più molecole all’appello. Dato di assoluta rilevanza, nessun campione è stato rinvenuto come irregolare. Nonostante ciò, vi è una bottiglia di vino contenente ben otto diversi residui che rimbalza da un report ambientalista a una trasmissione televisiva, come se fosse lei la normalità dei fatti. Viene quasi da chiedersi se per caso quella bottiglia non se la scambino fra loro i vari demagoghi allarmisti, i quali pare ne facciano il medesimo uso che facevano delle vacche i sostenitori del Duce, i quali spostavano su e giù per lo Stivale i poveri bovini per fare vedere a Mussolini quanto grande fosse l’Italia agricola.
Nella realtà descritta dai numeri, i quali in un Mondo razionale dovrebbero pesare più delle opinioni e delle fobie, i residui chimici presenti nel vino rappresentano un rischio sanitario tendente asintoticamente a zero. Per chi non lo sapesse, infatti, l’italiano medio assorbe con la dieta circa l’uno per mille del quantitativo di residui che a livello internazionale è già reputato sicuro.
Un margine di sicurezza assolutamente confortante che può essere facilmente ricavato da solidi studi effettuati in materia(1).
Nonostante ciò, non sono certo pochi gli esponenti bio, biodinamici, naturali, etici e “liberi” che cavalcano l’onda della maggiore salubrità dei loro vini, trovando come argomento di marketing la rinuncia ai prodotti chimici di sintesi, in tutto o almeno in parte. Buffo però pensare che un metallo pesante come il rame, quando trovato come residuo, venga reputato innocuo se proviene da agricoltura “alternativa”, mentre vada ad arricchire il computo dei “pesticidi cattivoni” se viene trovato nelle bottiglie di un viticoltore che segua programmi di Difesa Integrata. Misteri della fede.
Per tutta risposta, chi mal digerisce le crociate farlocche contro la chimica agraria risponde che nei vini “bucolici” vi sono le micotossine, sostanze cancerogene naturalmente prodotte da funghi che proliferano sulle uve in presenza di condizioni climatiche favorevoli, come pure in assenza di adeguati trattamenti fungicidi. Della serie: se dobbiamo essere cornuti, almeno che lo si sia tutti. Una logica che per quanto appaia comprensibile da parte di chi viene sbattuto tutti giorni sui media come avvelenatore, produce solo ulteriore sfiducia nel prodotto “vino” in senso lato. Il tutti contro tutti, effettivamente, non giova a nessuno.
Ma è bene ricordare che il gioco al massacro non lo hanno certo iniziato i viticoltori convenzionali, bensì quelli “alternativi”. Sarebbe quindi auspicabile che proprio questi ultimi deponessero l’ascia di guerra contro i “kimici” e si limitassero a fare buoni vini anziché sostenere le proprie vendite grazie alla diffidenza creata nei consumatori verso i prodotti altrui. Una diffidenza che, come visto, è basata su una diffusa menzogna di fondo.
Tagliare il Testino al toro
Il vino, è bene essere onesti, può però fare male. E tanto. Al suo interno, infatti, vi sono grandi quantità di una sostanza tossica e potenzialmente cancerogena. E questa sostanza è contenuta in abbondanza in ogni singola bottiglia prodotta, indipendentemente che derivi da agricoltura “Bio & Co” oppure dal più “kimico” dei viticoltori. Questa sostanza è stata classificata dall’Organizzazione mondiale della Sanità come la terza droga pesante al Mondo dopo eroina e cocaina. Ha effetti nefasti sui feti, tanto è vero che ne viene sconsigliata fortemente l’assunzione nelle donne gravide, come pure aumenterebbe il rischio di sviluppare alcuni tumori con percentuali a due cifre: 40% dei tumori al fegato, 18% di quelli al seno e 20% di quelli all’intestino. Non a caso, questa tossina cancerogena spedisce al Creatore svariate decine di migliaia di persone all’anno solo in Italia.
Quale maledetta multinazionale ha creato un simile mostro? Quale scellerata pratica agricola o di cantina l’ha fatto finire nel vino che beviamo? Nessuno è stato: la sostanza in questione la crea spontaneamente la Natura al momento della fermentazione del vino e si chiama… alcol!
In ogni bottiglia ve ne è circa 90-100 grammi, ovvero una quantità superiore di almeno 10 mila volte la somma dei molteplici residui chimici che si trovassero eventualmente in quel campione. Quindi, affermare che in quel vino sono state trovate “un sacco” di sostanze chimiche diverse, di per sé vuol dire poco, se non addirittura niente. Anzi: ritornando ai dati sui residui, su cento bicchieri che un consumatore beve, solo 14 di essi conterranno molteplici residui, circa 15 ne conterranno uno solo e la rimanente settantina non ne conterrà invece alcuno. Solo vino e basta.
In un’ottica di lungo periodo, quindi, l’assunzione di residui di agrofarmaci risulta così bassa, incostante e diluita nel tempo da poter essere considerata tendente a zero. L’alcol no: come detto, ogni singolo bicchiere dei cento considerati contiene quasi venti grammi di alcol, sempre e comunque. Nel bere vino, perciò, si deve semmai prestare attenzione a non cadere nell’abuso dell’alcol stesso e non a fantomatici pericoli dovuti ai residui.
A conforto di questi ragionamenti sul vino e sull’alcol, giunge peraltro una crociata indetta da un medico genovese, Giovanni Testino(2). Questi ricopre diverse cariche: è Vice presidente nazionale della Società italiana di alcologia, ma è anche coordinatore del Centro Oncologico della Regione Liguria. Infine, risulta direttore dell’Unità operativa di alcologia dell’Istituto scientifico per la ricerca sul cancro dell’Ospedale San Martino di Genova. Forte proprio dei dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità, Giovanni Testino ha deciso di intraprendere una vera e propria battaglia legale. Si è quindi unito ad Assoutenti e ad alcuni avvocati genovesi dello studio “Conte e Giacomini” e insieme hanno presentato istanza perché vengano modificate le Leggi relative all’etichettatura degli alcolici. Analogamente a quanto già fatto per le sigarette, chiedono infatti di inserire in etichetta sia la dicitura “l’alcol favorisce il cancro”, sia gli ingredienti che compongono la bevanda. Vini inclusi.
Quindi, sulle bottiglie di vino potrebbe in futuro campeggiare una frase che non ammette repliche. Una frase di fronte alla quale, per un bevitore abituale, quello dei residui di agrofarmaci dovrebbe diventare l’ultimo dei problemi.
Se Testino la spuntasse, ed è legittimo tifare per lui, verrebbe lecito anche chiedersi dove finirebbero i molti distinguo maramaldi fra vini sedicenti “buoni”, ovvero quelli “biologici”, “biodinamici” o “naturali”, e quelli additati come “cattivi”, cioè quelli provenienti da agricoltura integrata le cui uve sono state trattate coi “pesticidi cattivoni”? Una differenza che oggi viene spacciata per abissale da certe campagne di marketing molto disinvolte, campagne che in futuro potrebbero essere zittite da un bel testo in etichetta che ricorda che quel prodotto, soltanto per il suo contenuto di alcol, può causare il cancro. Il tutto, indipendentemente da come l’uva sia stata trattata in campagna o meno.
Bene quindi sarebbe che si smettesse di additare come pericolosa per il nostro piede una piuma di piccione, quando ci sta per cadere sopra un incudine di 20 chili. Perché più o meno è questa la proporzione fra i rischi rappresentati dalla chimica agraria rispetto a quelli rappresentati dall’alcol in quanto tale. Alla faccia del business furbetto di chi ha fatto le proprie fortune sul terrorismo mediatico e sulla mistificazione di fatti indiscutibili.
(1) Ivano Camoni (2001): in “La tossicologia per la qualita` e la sicurezza alimentare” (pag.17-24). Pa`tron Editore, a cura di Patrizia Hrelia e Giorgio Cantelli Forti
(2)“Tumori da alcol: produttori chiamati a rispondere in tribunale”. Intervista a Giovanni Testino: http://www.affaritaliani.it/cronache/tumori-alcol-genova- societ-produttrici-chiamate-rispondere-tribunale220413.html
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Fonte: Agronotizie