Un incontro per fare il punto sulla batteriosi dell’actinidia a tre anni dalla sua comparsa in Emilia-Romagna, con l’obiettivo di condividere conoscenze e modalità d’intervento per fronteggiare l'emergenza fitosanitaria. E' quello che si è tenuto a Faenza - titolo: ‘La batteriosi del kiwi. Cosa fare?’, organizzato dalla Regione Emilia-Romagna e dal Crpv.
I dati della diffusione del Psa sono allarmanti: nel 2011 il Servizio fitosanitario dell’Emilia-Romagna ha accertato la batteriosi in circa 400 ettari della superficie regionale (il 10%) in cui è coltivata prevalentemente Actinidia deliciosa.
Complessivamente la superficie estirpata è stata di circa 12 ettari per un valore di oltre 580 mila euro di contributi erogati alle aziende che hanno fatto richiesta. Attualmente in Italia il Psa è diffuso nel Lazio, in Emilia-Romagna, Veneto, Calabria, Piemonte e più recentemente nel Friuli Venezia Giulia (2011).
“L’actinidia in Emilia-Romagna si estende su 4.500 ettari - spiega Tiberio Rabboni, assessore regionale all'Agricoltura - per una produzione complessiva di circa 75 mila tonnellate: il 75% nella sola Provincia di Ravenna. Questi dati dimostrano l’importanza della coltura per l’agricoltura e per l’economia regionale. Per questo motivo la Regione ha deciso l’anno scorso di finanziare un progetto di ricerca per acquisire maggiori informazioni e strumenti per contrastare la malattia”.
Conoscenze attuali sulla Psa
(Dall'intervento di Alessandra Calzolari - Servizio fitosanitario Regione Emilia-Romagna)
“Dal punto di vista biologio ed epidemiologico - spiega la Calzolari - i diversi studi fatti in questi anni hanno portato ad una maggiore conoscenza del batterio. Dalla primavera 2008 ad oggi sono stati osservati diversi casi di Psa in molte aree produttive italiane, colpendo sia l’Actinidia chinensis (kiwi giallo) che l’Actinidia deliciosa (kiwi verde).
Questa malattia ha evidenziato una forte aggressività e un’elevata velocità di diffusione. Il batterio agisce a livello vascolare e una volta penetrato all’interno dell’ospite è difficile da contrastare: può penetrare nella pianta attraverso le aperture naturali (stomi e lenticelle), le aperture provocate da eventi meteorologici e lesioni provocate dagli interventi colturali. I sintomi generali sono: imbrunimento e successivamente cascola dei fiori e dei boccioli, avvizzimento e collasso dei frutti, maculature fogliare, cancri rameici con produzione di essudato e nei casi più gravi morte dell’intera pianta.
Nei nostri studi abbiamo individuato che il batterio può sopravvivere per diverso tempo in modo epifita sulle foglie finché non trova un’apertura che usa per entrare nella pianta. Inoltre, presenta anche una sopravvivenza endofita all’interno dei tessuti vascolari. Quest’ultima è sicuramente la più complessa e pericolosa in quanto latente e non identificabile a livello sintomatico.
La diffusione a breve distanza può avvenire attraverso le piogge, il trasporto dei residui vegetativi infetti e gli interventi dell’uomo. La diffusione a grande distanza invece avviene presubilmente attraverso l’uso di materiale di propagazione infetto che presenta al suo interno la malattia sottoforma latente. In base ai nostri dati sperimentali possiamo dire che nel polline sono presenti tracce di Psa, anche se non siamo in grado di dire se il batterio sia attaccato direttamente alla superficie del polline o ai residui vegetali trasportati dallo stesso.”
Indicazioni tecniche per il contenimento della malattia
(Dall'intervento di Loredana Antoniacci – Servizio fitosanitario Regione Emilia-Romagna)
“Per avere un adeguato contenimento della malattia durante l’intera stagione, oltre agli interventi diretti e indiretti, è necessario controllare periodicamente l’impianto per individuare precocemente le infezioni e intervenire preventivamente.
Anche durante il periodo estivo e in prossimità della ripresa vegetativa può essere utile eseguire tali controlli, per rilevare i segnali di presenza di Psa.
Per dare un reale supporto alla lotta di questa temibile patologia, abbiamo messo a punto uno schema degli interventi (scarica il PDF) che devono essere fatti sugli impianti.
Allo stato attuale le uniche azioni efficaci risultano: eliminazione delle parti infette (o delle intere piante infette), attuazione di adeguate pratiche colturali, mantenimento di un basso livello batterico attraverso l’uso del rame. Per quanto riguarda il diradamento dei bottoni fiorali e dei frutti devono essere eseguiti in condizioni asciutte.
Si suggerisce inoltre di porre molta attenzione alla potatura, che viene fatta nei vari periodi dell’anno, dove il rischio infezione legato alle ferite è altissimo.
L’uso dei prodotti rameici, sconsigliato durante la fioritura, contribuisce, insieme all’eliminazione della vegetazione infetta, al contenimento della malattia mantenendo bassa la carica batterica. Tutto questo però non permette di poter escludere la possibile infezione. Crediamo che sia necessario continuare nel lavoro di ricerca allo scopo di aumentare le nostre conoscenze e di migliorare il sistema produttivo del kiwi in base alle nuove esigenze.
Su quest’ultimo fronte ritengo necessario: rivedere i sistemi agronomici di coltivazione, individuare nuove varietà resistenti, ripensare alle forme d’allevamento”.
Un programma di ricerca avviato per i prossimi anni
(Dall'intervento di Giampiero Reggidori – presidente Crpv)
“Nel settembre del 2011 abbiamo avviato un programma di ricerca coofinanziato dalla Regione Emilia-Romagna, da alcune Op, aziende private e da Istituti bancari.
Esso è basato su cinque azioni: approfondire le conoscenze sul batterio, individuare tecniche agronomiche capaci di limitarne la diffusione e la gravità, verificare l’efficienza di preparati di sintesi e naturali nei confronti di un possibile contenimento, mettere a punto tecniche vivaistiche e di controllo e conservazione del materiale di moltiplicazione di fonte, valutare le eventuali implicazioni economiche e occupazionali derivate dalla possibile diffusione della malattia.
Questo progetto segue quelli già avviati da altre Regioni negli scorsi anni (Lazio e Piemonte) e precede quelli d’imminente apertura finanziati dal Mipaaf e dalle Regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto. Tutti i progetti non vogliono però essere antagonisti ma hanno la volontà, attraverso la collaborazione comune, di raggiungere la possibile soluzione a questo grave problema”.