Il ruolo economico e sociale della filiera è dato da questi numeri: 2 milioni di imprese, 9% del PIl italiano (14% considerando anche l’indotto), 3,2 milioni di lavoratori impiegati nelle varie fasi della filiera (il 14% degli occupati italiani), e un contributo al bilancio dello Stato di 25 miliardi di euro
Inoltre l’importanza strategica dell’agroalimentare è divenuta ancor più rilevante in questi anni di crisi economica; dall’insorgere della crisi in poi, l’agroalimentare è stato uno dei settori che meglio ha retto gli effetti della crisi, registrando tra il 2007 e il 2003 una crescita del valore aggiunto del 6% (a prezzi correnti), mentre nello stesso periodo il totale della manifattura italiana e le costruzioni hanno registrato una flessione rispettivamente del -18% e -11%.
La crisi in italia: le famiglie consumano meno e cambiano abitudini di acquisto
Questo non vuol dire che l’agroalimentare non abbia accusato la perdurante crisi economica che attanaglia il nostro Paese: dal 2007 al 2013 i consumi alimentari si sono ridotti, a valori costanti, del 14%, coinvolgendo tutte le categorie merceologiche (carni, oli e grassi, lattiero-caseario, bevande, ecc.), mentre solo specifici segmenti di consumo sono riusciti a raggiungere risultati positivi nonostante la crisi in atto (biologico, integrale, gluten free, ecc.)
Non a caso, solo nell’ultimo triennio gli italiani hanno risparmiato quasi 5 miliardi di euro sulla spesa alimentare, tramite un radicale cambiamento delle proprie abitudini d’acquisto; la riduzione dei redditi ha infatti spinto i cittadini a comprare sempre più prodotti in promozione, o ridurre gli sprechi alimentari, o ancora, per citare un altro esempio, a fare la spesa nei discount piuttosto che in iper e super.
Per fortuna... la domanda alimentare cresce all'estero
Per fortuna, le cose vanno molto diversamente al di fuori dei confini nazionali; grazie soprattutto alla spinta delle economie emergenti (non solo i BRIC ma anche altri Paesi in forte sviluppo come ad esempio Messico, Turchia, Corea, Indonesia , e il Sud-Est asiatico in generale), i consumi alimentari crescono in maniera importante all’estero e continueranno a salire anche nei prossimi anni : a titolo esemplificativo basta pensare come nel prossimo decennio si preveda un sostanziale raddoppio dei consumi alimentari cinesi a fronte di una prospettiva di crescita complessiva del 10% per l’Italia.
L’export traina l'agroalimentare italiano... ma si può fare di più
In questo scenario, la produzione e le vendite delle nostre imprese agroalimentari sono trainate anzitutto dalle esportazioni che nel 2013 hanno superato i 33 miliardi di euro (di cui 27 miliardi relativi a prodotti trasformati): nell’ultimo decennio i consumi alimentari italiani sono cresciuti complessivamente del 22% mentre l’export di prodotti agricoli è cresciuto del 43% e l’export di prodotti alimentari (trasformati) dell’83%.
Nonostante gli importanti successi raggiunti sui mercati esteri l’impressione è che comunque sia possibile fare ancora molto. Negli ultimi 10 anni infatti, nonostante l’importante crescita delle esportazioni agroalimentari italiane, la quota di mercato detenuta dall’Italia in questo settore a livello mondiale è diminuita dal 3,3% al 2,6%. In sintesi: l’export agroalimentare è cresciuto ma meno di quanto avvenuto mediamente a livello mondiale (dal 2000 al 2013 l’export mondiale di prodotti agroalimentari è triplicato).
Se a veder crescere le quote di mercato sul commercio internazionale sono soprattutto Cina e Brasile, in realtà l’agroalimentare italiano soffre della pressione competitiva esercitata anche all’interno del contesto europeo.
Pochi lo direbbero, ma l’export alimentare (dei soli prodotti trasformati) della Germania “doppia” quello italiano (rispettivamente 54 e 27 miliardi di euro); anche l’export francese è ben più elevato (43 miliardi di euro) dell’export italiano, mentre la Spagna (24 miliardi di euro) è solo poco al di sotto dei valori esportati dall’Italia
Esportiamo meno dei principali competitor europei nonostante l'appeal "made in Italy"
Nell’immaginario collettivo, il made in Italy agroalimentare gode di un apprezzamento e un riconoscimento, in termini di immagine e qualità dei prodotti, che pochissimi altri Paesi (forse nessun Paese) al mondo hanno. Forse quindi non riusciamo a cogliere tutto il potenziale che i nostri prodotti hanno. Perché?
Un primo elemento è rintracciabile nella frammentazione produttiva della nostra filiera: le imprese agricole e alimentari italiane sono molto più piccole rispetto a quelle di tutti gli altri principali competitor europei: un’azienda agricola italiana mediamente ha un valore della produzione di 29.000€ contro i 42.000 € della Spagna i 142.000€ della Francia e i 172.000€ della Germania. In maniera simile, a livello industriale le imprese italiane presentano un fatturato medio di 2,2 milioni di euro contro i 2,6 milioni di euro delle imprese francesi, i 3 milioni di euro delle imprese spagnole e i 5,1 milioni di euro delle imprese tedesche.
Le imprese della filiera sono troppo piccole
La dimensione aziendale è importante perché ad essa sono correlate una serie di elementi centrali per la competitività delle imprese: capacità finanziarie e di investimento, capacità di rispondere ai volumi richieste da grandi piattaforme logistiche e distributive, possibilità di acquisire competenze tecniche e manageriali, capacità di raggiungere e conquistare i mercati esteri. A tale ultimo proposito basta considerare come la propensione all’export dell’industria alimentare italiana cresca in maniera significativa al crescere delle dimensioni di impresa. In quelle che hanno meno di 10 addetti solo il 7% del fatturato è riconducibile all’export (che ricordiamo è lo sbocco in prospettiva più incoraggiante) mentre tale quota sale al 24% nelle imprese con 20-50 addetti e al 26% nelle imprese con oltre 250 addetti. Il problema è che l’87% delle imprese italiane ha meno di 10 addetti.
In sintesi, su questo punto, le ridotte dimensioni medie del tessuto imprenditoriale rendono difficili gli investimenti in prodotti, processi e organizzazione che consentirebbero di valorizzare ancor di più l’ottima immagine e le opportunità offerte dal mercato mondiale al nostro made in Italy.
Naturalmente la fase distributiva è per natura molto più concentrata della fase produttiva; ma anche in tal caso il grado di concentrazione delle imprese è inferiore a quanto avviene in altri Paesi europei: in Italia i primi 3 attori della Distribuzione Moderna coprono il 35% delle vendite alimentari, mentre tale quota è sempre superiore al 50% in tutti gli altri principali competitor UE. Allo stesso tempo va precisato come tra gli altri canali di vendita, la vendita diretta in azienda rappresenta il 3% dei consumi alimentari ed oltre un terzo della vendita diretta è realizzata da cooperative agroalimentari
La filiera perde valore e c'è un problema di reddito... soprattutto in agricoltura
Le difficoltà dell’agroalimentare italiano nel mantenere quote di mercato all’estero e soprattutto
derivanti dalla crisi sul fronte dei consumi interni è d’altronde rilevabile anche dalla perdita di valore che progressivamente sta caratterizzando la filiera intera.
Pochi sanno infatti che di tutta la spesa alimentare degli italiani (circa 220 miliardi di euro tra consumi domestici e consumi fuori casa) più della metà di tali risorse non vanno a finire nelle tasche di imprenditori e occupati nelle varie fasi della filiera (agricoltura, industria alimentare, distribuzione, grossisti e ristorazione); in particolare più di un terzo della spesa alimentare serve a finanziare il costo legato all’approvvigionamento di beni e servizi prodotti da altri settori economici (packaging, trasporti, logistica, comunicazione, energia, ecc..), una tipologia di costi strettamente legata ai livelli di efficacia del sistema Paese nel suo complesso (si pensi al costo dell’energia). La cosa più preoccupante è che tale tipologia di costi pesa sempre di più sui conti delle imprese agroalimentari (dal 22% al 34% dei consumi alimentari nel decennio 2000-2010.
Non a caso, infatti, la somma di tutti gli utili conseguiti dalle imprese delle varie fasi della filiera (agricole, industriali, distributive ecc.) rappresentano solo il 3% dei consumi alimentari (7 miliardi di euro). In sintesi, nella filiera agroalimentare, al netto di ovvie eccezioni, in genere si guadagna poco, una circostanza particolarmente vera per la fase agricola.
I redditi degli agricoltori italiani, a differenza di quanto avviene in tutti gli altri principali paesi europei, non crescono. E cosa ancor più grave, sono sensibilmente più bassi: 22.000 € il reddito medio di un agricoltore italiano contro 47.000 euro in Francia e i 36.000 euro in Germania.
La cooperazione sostiene i redditi agricoli
Uno degli strumenti più diffusi e importanti a livello europeo per il sostegno al reddito agricolo è l’associazionismo cooperativo, un’affermazione tra l’altro confortata dai dati della Commissione europea che mostrano come i Paesi dove maggiore è la quota di mercato detenuta dalle cooperative agroalimentari, maggiore è il livello dei redditi degli agricoltori. In questo contesto, in Italia la cooperazione svolge un ruolo di primissimo piano con quasi 6.000 realtà, 35 miliardi di euro di fatturato e quasi 100.000 occupati. La cooperazione veicola circa il 38% della produzione agricola nazionale, un dato di assoluto rilievo anche se leggermente inferiore rispetto a quanto avviene complessivamente a livello europeo (40%)
Un altro strumento che più di recente viene sempre più adottato dalle imprese agroalimentari per migliorare la propria competitività e conseguentemente i propri redditi fa riferimento alle reti d’impresa. Ad oggi sono quasi 880 le imprese agroalimentari coinvolte in questi strumenti di collaborazione, in gran parte imprese agricole (oltre 450).
I problemi di competitività delle nostre imprese non derivano ovviamente solo dalle criticità strutturali del sistema produttivo. Non sono da meno infatti i vincoli derivanti da un sistema di supporto istituzionale al sistema agricolo e agroalimentare che appare troppo complesso, articolato, spesso basato su logiche politiche e strascichi del passato. Un sistema non più adeguato alle attuali esigenze del tessuto produttivo: è evidente lo sfasamento esistente tra questa organizzazione complessiva, le sue strutture e gli obiettivi per i quali sono state costituite rispetto alle nuove esigenze delle imprese agroalimentari italiane.
Dove nasce la burocrazia: articolazione e complessità del sistema di supporto all'agricoltura
Una prima complessità emerge in merito alla numerosità dei soggetti che a vario titolo sono impegnati nel supporto al sistema agricolo e agroalimentare più in generale: MIPAAF, Regioni, Altri Ministeri, strutture intermedie, a cui si aggiunge un sistema di rappresentanza troppo frammentato
Focalizzando attenzione su livello centrale, nel 2013 il Mipaaf ha evidenziato un bilancio con impegni di spesa per circa 1,5 miliardi di euro, risorse destinate in gran parte alla gestione di funzioni pubbliche mentre solo una quota residuale di tali risorse è funzionale a sostenere gli investimenti direttamente realizzati dalle imprese (meno del 10%).
D’altronde una buona parte dell’attività ministeriale è delegata ai 5 enti vigilati (INEA, ISMEA, AGEA, CRA, ENTE RISI) , enti con una spesa di funzionamento complessiva di circa 400 milioni di euro comprendendo anche i trasferimenti a società controllate e partecipate dagli stessi enti vigilati.
Ma non c’è solo il livello centrale: anche le Regioni sono direttamente impegnate nel finanziare servizi a supporto del sistema agricolo, spesso tramite partecipate non sempre gestite in maniera efficiente; a tale proposito basta considerare come le partecipate delle Regioni hanno cumulato complessivamente nel 2012 una perdita annua di 15 milioni di euro. Parlando di Regioni poi è forse opportuno aprire un dibattito circa l’efficacia del decentramento della spesa nel momento in cui si spendono soldi europei. A quattro mesi dalla scadenza ultima per spendere le risorse destinate all’Italia dall’UE, molte regioni sono in netta difficoltà: sono infatti circa 650 i milioni di euro a rischio disimpegno a fine anno.
Ci sono poi le strutture intermedie, ossia soggetti a cui nel corso dei decenni passati è stata affidata una posizione monopolistica o di vantaggio nella gestione di funzioni pubblicistiche. Se tali strutture avevano un tempo effettivamente funzione pubblicistica (in un sistema produttivo contraddistinto da una miriade di piccole e piccolissime aziende), oggi alla luce dell’evoluzione di mercato e del medesimo tessuto produttivo, non sembrano più rispondere in maniera efficiente ed efficace alle reali esigenze delle imprese, comportando in tale modo un appesantimento burocratico e di costi sia sulle stesse aziende che sul sistema pubblico, facendo perdere competitività ed opportunità di mercato alle imprese agroalimentari.
Un cambio di rotta per il futuro dell'agroalimentare italiano
In considerazione di tali inefficienze di sistema e del mutato scenario di mercato è quanto mai imprescindibile un cambio di rotta per la sostenibilità e la continuità dell’agroalimentare italiano. Un cambio di rotta che preveda interventi sul sistema di supporto all’agricoltura al fine di liberare risorse a favore di quelle imprese che decidono di investire sul futuro, proprio e dello stesso sistema agroalimentare nazionale.
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Fonte: Agrinsieme