Aumentano del 40% gli sbarchi di concentrato di pomodoro dalla Cina nel 2010 che superano in totale i 115 milioni di chili, un quantitativo record che corrisponde a circa il 15% della produzione di pomodoro fresco destinato alla trasformazione realizzata in Italia.

Lo rende noto la Coldiretti in occasione della presentazione del primo rapporto "Dai lager cinesi alle nostre tavole?" elaborato dalla Laogai Research Foundation dal quale emerge che sono circa un milione i detenuti in Cina costretti ai lavori forzati nell’agroalimentare in imprese Lager, i cosiddetti Laogai, su 1,4 milioni di ettari di terreni che producono per il mercato interno e per l’esportazione.

I pomodori conservati sono, sottolinea la Coldiretti, la prima voce delle importazioni agroalimentari dalla Cina delle quali rappresentano oltre 1/3 in quantità (42 per cento) nel 2010. Ma dal gigante asiatico sono arrivati anche 96,1 milioni di chili di ortaggi e legumi (+10 per cento), 12,8 milioni di chili di frutta (+58 per cento) e  4,5 milioni di chili di aglio (+50 per cento). Peraltro la bilancia commerciale nell’agroalimentare è profondamente squilibrata con importazioni dalla Cina in valore che sono state pari a 498 milioni di euro superiori di due volte e mezzo, precisa la Coldiretti, alle esportazioni del Made in Italy nel paese asiatico per un importo di 192 milioni di euro.

La Cina ha iniziato la coltivazione di pomodoro per l’industria nel 1990 e oggi, dopo aver superato l’Unione europea, rappresenta il secondo bacino di produzione dopo gli Stati Uniti. Dalle navi sbarcano fusti di oltre 200 chili di peso con concentrato da rilavorare e confezionare come italiano poiché nei contenitori al dettaglio è obbligatorio indicare solo il luogo di confezionamento, ma non quello di coltivazione del pomodoro. Ogni giorno in media arrivano nei porti italiani oltre mille fusti di concentrato di pomodoro dalla Cina che finisce sulle tavole mondiali come condimento tipico dei piatti Made in Italy. Una situazione insostenibile per i consumatori e i produttori del Made in Italy che provoca danni economici diretti e di immagine al prodotto “nostrano” sul quale pesano gli effetti di una concorrenza sleale dovuta a situazioni di dumping sul piano sanitario, ambientale e sociale. Se gli standard sanitari sono diversi rispetto a quelli dell’Unione europea, la produzione in Cina sembra essere anche realizzata con sfruttamento del lavoro forzato dei detenuti da parte di molte imprese cinesi impegnate nell'export alimentare, secondo la denuncia Laogai National Foundation.