Quella biologica è l'unica carne bovina il cui consumo è in crescita, mentre calano gli acquisti di carne bovina convenzionale, anonima e priva di indicazioni in merito alla razza o alle caratteristiche di allevamento e provenienza, oltre a quelle obbligatorie per legge.

È questo in estrema sintesi quanto emerge da un recente report di Ismea che "fotografa" la situazione del comparto carni bovine, a partire dalla filiera del biologico.

 

La crescita di questo segmento, pur se positiva, nasconde molte ombre e mette in evidenza le tante criticità che affliggono l'intero settore delle carni bovine.

A complicare il quadro, la continua demonizzazione delle carni rosse, tesa a scoraggiarne il consumo.

Il rincorrersi di ingiustificati allarmismi sulla presunta nocività di queste carni (che la scienza ha puntualmente smentito), insieme agli effetti combinati di pandemia e crisi economica, ha comportato infatti una costante diminuzione dei consumi di carni bovine, scese del 2% ogni anno nell'ultimo decennio.

Oggi il consumo apparente (quello reale si stima sia la metà) è di soli 16,8 chilogrammi procapite/anno.


Numeri modesti

Modesto l'apporto delle carni bovine biologiche, la cui disponibilità (compreso l'import) si ferma ad appena 8mila tonnellate anno, solo lo 0,8% del consumo complessivo di carni bovine.

Interessanti le prospettive di crescita, frenate però da problemi strutturali e congiunturali.

Ai primi appartiene la frammentazione del tessuto produttivo, con allevamenti di dimensioni medio piccole, scarsamente rappresentati in strutture associative, come le Organizzazioni dei Produttori.

 

Molti poi i protagonisti che intervengono nel passaggio dalla stalla alla tavola, mediatori, commercianti e poi macelli, laboratori di sezionamento e di confezionamento e infine la distribuzione.

Non mancano esempi virtuosi di allevamenti a ciclo chiuso, che seguendo la linea vacca-vitello appaltano a macelli in conto terzi la trasformazione per poi vendere direttamente la carne.

Ne sono un esempio alcuni agriturismi, in qualche raro caso dotati di un proprio impianto di macellazione.


Costi elevati

Un ostacolo alla crescita della carne bovina biologica è costituito dai maggiori costi di produzione, non compensati da una adeguata remunerazione del prodotto finale.

Nel report di Ismea si legge che il costo di produzione in Italia è fra i più alti in Europa.

Ciò che incide di più è l'alimentazione, considerando che il mangime bio costa il doppio di quello convenzionale.

Poi occorre tener conto dei costi di certificazione, circa duemila euro, che a fronte di fatturati modesti può incidere in percentuali importanti.

Maggiori costi che si stimano in circa il 40% più elevati rispetto a una produzione tradizionale, costi che non sempre l'allevatore riesce a riversare sul prezzo del prodotto finito.

 

I margini per gli allevamenti, in particolare per quelli che non riescono a puntare sul ciclo chiuso e sulla vendita diretta, si assottigliano.

Tanto da rendere indifferente la vendita di questa carne nel circuito del prodotto convenzionale, senza alcuna distinzione né valorizzazione.

Uno "spreco" favorito dall'assenza nella maggior parte delle catene di distribuzione di spazi dedicati alla carne biologica.

Potrebbero essere un'eccezione i negozi che vantano un'insegna "bio", frequentati però da un consumatore più propenso ai cibi vegetali.


Premi Pac, la salvezza

Perché allora, è lecito chiedersi, gli allevatori si accollano i maggiori problemi legati a una produzione biologica quando poi il mercato non li premia come dovrebbe?

Due le possibili motivazioni. Da una parte una scelta etica da parte del produttore, che in molti casi già dirige un'azienda agricola che ha compiuto una transizione verso il biologico anche per le colture vegetali.

In altri casi sono gli incentivi comunitari che "premiano" il maggior impegno necessario alla produzione di carne bovina biologica.

Infatti la nuova Pac, che ha preso il via quest'anno, prevede premi alla macellazione e il premio vacche nutrici, poi l'aiuto accoppiato e il contributo specifico sulle superfici biologiche, che aumenta in presenza di una stalla bio. 


L'anonimato non paga

Osservando i dati emersi dalle analisi di Ismea c'è da chiedersi se gli incentivi previsti da Bruxelles saranno sufficienti a sostenere e sviluppare la produzione di carne bovina bio.

Se anche lo fossero, si avrebbe la crescita di un settore la cui sopravvivenza è legata alla continuità delle risorse comunitarie.

Quanto basta per rendere incerto il futuro di questi allevamenti. La carne, bio o convenzionale che sia, è così di fronte a una grande sfida: uscire dall'anonimato.

 

Sarà necessario dividere in due il mercato, da una parte i prodotti privi di specificità, che seguiranno il destino di ogni anonima commodity, dove a fare la differenza è solo il prezzo.

Dall'altra la carne a marchio, bio o non bio, che si farà riconoscere per le sue caratteristiche e che si farà pagare per quel che vale.

Non è facile. In molti ci hanno provato con scarsi risultati. Ma non per questo bisogna arrendersi.