Difficile far quadrare i conti di una stalla di bovine da latte.
I costi, in particolare quelli legati all'alimentazione degli animali, sono schizzati verso l'alto, mentre il prezzo percepito dagli allevatori per il latte prodotto è fermo a 38,50 centesimi al litro.
Più o meno quanto una buona acqua minerale in bottiglia.
Non stupisce che il numero delle stalle in attività vada sempre più riducendosi, con la chiusura delle attività di più modeste dimensioni e di quelle che insistono su aree difficili, come la collina e la montagna.
Il ruolo dei formaggi
C'è da chiedersi allora come mai la produzione di latte in Italia sia in aumento, tanto da lasciar presagire che a fine anno, superando i 12 milioni di tonnellate di latte prodotto, l'Italia possa avvicinarsi all'autosufficienza.
A salvare la nostra zootecnia contribuisce in larga misura la lunga tradizione casearia dello Stivale, che con i suoi innumerevoli formaggi assorbe gran parte del latte prodotto, pagandolo per quel che vale, o quasi.
A dettare le regole del gioco sono i due grandi formaggi "grana" a denominazione d'origine, il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano, entrambi reduci da una favorevole stagione di mercato.
Il controllo della produzione
Il loro segreto sta nell'aver utilizzato al meglio gli strumenti normativi messi a disposizione dai regolamenti comunitari per governare la produzione, senza incorrere nelle ire delle autorità per la concorrenza.
Per allineare le quantità di forme prodotte alla domanda del mercato, hanno entrambi riesumato con formule nuove il regime delle quote latte, abbandonato da Bruxelles nel 2015.
Mentre il consorzio del Grana Padano ha affidato ai singoli caseifici il compito di rispettare precise quote di produzione, i "cugini" del Parmigiano Reggiano hanno preferito responsabilizzare i singoli allevatori.
Quest'ultima scelta, se ci si ferma ai risultati di mercato, sembrerebbe più premiante.
Le rilevazioni di mercato condotte da Ismea dicono infatti che mentre il prezzo del Parmigiano Reggiano è cresciuto nell'ultimo anno del 23,3%, quello del Grana Padano è fermo a un più 7,4%.
Il parere dell'economista
Molteplici i fattori che hanno concorso al raggiungimento di questi risultati, che nel caso del Parmigiano Reggiano sembrano però penalizzare gli allevatori.
Il perché lo chiediamo a Piero Augusto Nasuelli, docente di Zooeconomia all'Università di Bologna e profondo conoscitore della filiera del Parmigiano Reggiano.
Piero Augusto Nasuelli, docente di Zooeconomia all'Università di Bologna
"Per comprendere l'attualità - ci risponde Nasuelli - occorre fare un passo indietro, alla fine del regime delle quote latte. Pur se ferocemente vituperato e osteggiato, si è rivelato una concreta ed efficace modalità per il controllo dell'offerta di latte. In questo modo ha contribuito a evitare le crisi cicliche che da tempo affliggevano la filiera del Parmigiano Reggiano. Venendo meno i vincoli comunitari, i responsabili del Consorzio di tutela hanno ritenuto opportuno introdurre un sistema di quote simile a quello comunitario, pur se con molte differenze".
Quali sono queste differenze?
"Si inizia dal nome, abolendo il termine quote per sostituirlo con 'punto di equilibrio comprensoriale', sintetizzato nell' acronimo 'Pec', che sta ad indicare il quantitativo globale di latte da suddividere poi sui singoli caseifici, che a loro volta lo ripartiranno a ogni produttore. Quest'ultimo sarà titolare di una 'Quota latte Parmigiano Reggiano' che dovrà rispettare per non incorrere in penalità. Un rischio difficile da evitare, visto che il Pec fissato dal Consorzio è a un livello inferiore rispetto alla produzione effettiva di latte destinata a Parmigiano Reggiano".
Allora chi produce latte destinato al Parmigiano Reggiano vive ancora l'incubo delle multe?
"Non una sola, ma due, di diversa entità. Ma non si chiamano multe, bensì 'contribuzioni aggiuntive'. In pratica chi produce oltre il 20% della propria soglia produttiva, oltre a essere definito come 'grande splafonatore', è chiamato a una contribuzione aggiuntiva maggiorata. In 'soldoni' è prevista una penalità di 30 euro per ogni quintale di latte, penalità che si ferma a 18 euro per chi riesce a splafonare non oltre il 20% della propria quota".
E queste multe, ma per essere corretto dovrei chiamarle contributi, che fine fanno?
"È specificato dai piani produttivi triennali. Quello ora in vigore per il periodo 2020-2022, prevede che il Pec abbia come obiettivo il controllo dell'offerta di latte e il reperimento delle risorse finanziarie per la promozione del consumo e della qualità. In altre parole con queste risorse economiche si finanziano i piani di promozione del consumo, cosa che parrebbe in contrasto con l'altro obiettivo, che è il contenimento della produzione".
Da questi "contributi" degli allevatori arrivano risorse sufficienti per organizzare e pianificare una campagna di promozione degna di questo nome?
"Proviamo a fare insieme due conti. Per il 2021 si stima una produzione di latte di 2,1 milioni di tonnellate, che corrisponde a un aumento del 5% rispetto all'anno precedente. Tenuto conto del Pec, la contribuzione aggiuntiva si dovrà applicare a 277mila tonnellate di latte, che porta a stimare un'entrata di circa 40 milioni di euro nelle casse del Consorzio. Assai più dei 24 milioni di euro riportati nel bilancio di previsione 2021 dello stesso Consorzio".
Dunque i soldi ci sono, ma il piano sembra fallire una delle sue missioni, cioè il contenimento della produzione, che al contrario è in aumento.
"Il prezzo del formaggio, particolarmente vantaggioso, è un elemento che stimola un aumento produttivo che il sistema delle contribuzioni non riesce completamente a evitare. Gli allevatori per evitare di splafonare, in particolare oltre quel 20% che farebbe scattare un supplemento di contribuzione, acquistano 'quote', il cui prezzo tende ad aumentare di pari passo con l'aumento della produzione, innescando un effetto distorsivo sul sistema di controllo dell'offerta. Proviamo anche in questo caso a fare due calcoli. Il valore della "quota latte" viene stimata come equa nella forbice compresa fra 0,90 e 1 euro per chilo. Il valore totale di queste quote può pertanto stimarsi in 1,823 miliardi di euro, ovvero il 150% del valore di tutto il latte prodotto in un anno. Diverse le possibili conseguenze distorsive: una buonuscita insperata per i piccoli produttori di latte (favorendo l'abbandono delle attività e la vendita delle quote), una complicazione difficile da districare nel caso di acquisto, che a causa dell'elevato costo di un bene immateriale (quote latte), condizioneranno la redditività dell'azienda per molti anni a venire".
Questo meccanismo sembra lasciare tutte le responsabilità e i costi sulle spalle degli allevatori, che poi con le loro multe sostengono quella promozione dei consumi che va a vantaggio anche dei caseifici. O sbaglio?
"Non solo nei riguardi dei caseifici. È innegabile che il piano determini forti diseguaglianze anche fra gli stessi produttori. Pochi pagano e i benefici sono per tutti. Ravviso anche altre criticità, come ad esempio quella che potrebbe verificarsi nel caso di una riduzione della domanda. Ciò si ripercuoterebbe sulla produzione, con un calo, e di conseguenza diminuirebbe pure la contribuzione aggiuntiva. Verrebbero così a mancare le risorse necessarie per la promozione del prodotto proprio quando ce n'è più bisogno".
A dispetto di queste criticità va tuttavia preso atto dei buoni risultati conseguiti sul mercato, che consentono di riconoscere agli allevatori un prezzo del latte, circa 65 centesimi al litro, ben più alto di quello riservato al latte alimentare. Gli attuali limiti, tenendo conto delle esperienze passate, potrebbero trovare una soluzione nel piano che si sta predisponendo per il prossimo triennio. Cosa ne pensa?
"Temo - conclude Nasuelli - che le proposte sul tavolo per il triennio 2023-2025, non modifichino l'impianto sino a ora perseguito.
Ritengo anzi come probabile un maggior rilievo di alcune delle criticità delle quali abbiamo parlato, perché il controllo dell'offerta con il sistema delle quote, anche se volontarie, nel lungo periodo accentua i fenomeni distorsivi sul mercato. I piani produttivi dovrebbero contemplare provvedimenti temporanei, ma se la durata è di 12 anni e oltre i provvedimenti presi sono di carattere strutturale e quindi sono, a mio parere, in contrasto con la norma comunitaria".