Prendiamo un vino famoso, come il Barolo, ad esempio, e immaginiamo di farlo in Italia con uve della Nuova Zelanda. Sarebbe ancora Barolo? Sarebbe ancora italiano? Certo che no. E allora come può un salume essere “targato” Made in Italy se fatto con cosci di suini provenienti dall’Olanda o dalla Germania o da altre nazioni?

E’ partito da qui Giandomenico Gusmaroli, presidente di Anas (Associazione nazionale suinicoltori italiani) per spiegare le anomalie che sta vivendo il settore suinicolo stritolato da una crisi di mercato che dura ormai da troppo tempo. L’occasione è venuta da Reggio Emilia, dove si è appena conclusa la Rassegna Suinicola Internazionale, una tribuna ideale dalla quale parlare non solo agli addetti ai lavori, ma soprattutto ai consumatori. Ed è per rispetto e difesa dei consumatori che Gusmaroli ha lanciato una vera e propria “sfida” al mondo agroindustriale per ottenere una più chiara e trasparente indicazione della provenienza delle carni che entrano nei salumi “made in Italy”.

La tesi sostenuta dalle industrie di trasformazione, ha ricordato Gusmaroli, è che il salume possa essere considerato italiano se fatto prevalentemente con carne italiana. Ne consegue che un prodotto, ad esempio, con il 30% di carne italiana e il rimanente 70% proveniente da quattro o cinque diversi paesi (e in quantità singolarmente mai superiori al 20%) potrebbe chiamarsi “italiano”. Ma di fatto lo sarebbe solo in minima parte. E anche nell’ipotesi più favorevole, ovvero il 51% di carne italiana e il 49% di carne straniera, un controllo efficace e sicuro sarebbe difficile se non impossibile.

 

Prosciutti italiani, solo una minoranza

E’ allora necessario, questa la tesi sostenuta dal presidente dei suinicoltori, interrompere lo sfruttamento del marchio “Made in Italy” al solo scopo di spingere le vendite di prodotti trasformati che ben poco hanno a che vedere con la vera qualità dei prodotti italiani. Una logica di business che rischia di rovinare irrimediabilmente l’appeal che ancora oggi le nostre produzioni possono vantare. Preoccupazioni che nascono dalla constatazione dell’enorme quantità di cosci suini importati per essere trasformati in “prosciutti nostrani”. I numeri dell’import sono lì a dimostrarlo. Ogni anno entrano in Italia 56 milioni di cosci e solo 13 milioni sono quelli italiani, destinati ai circuiti dei prosciutti Dop (Parma e San Daniele). La differenza qualitativa è enorme. Solo in Italia si produce il suino pesante (156 kg di peso vivo) destinato alla trasformazione salumiera. I cosci importati provengono invece da suini leggeri e giovani, inadatti alla trasformazione in prodotti di qualità. E’ come fare il Barolo con le uve della Nuova Zelanda, ha ricordato Gusmaroli.

 

Un’etichetta trasparente

Lo strumento per dare trasparenza al mercato, tutela ai consumatori e restituire fiducia al comparto suinicolo è l’etichetta, nella quale riportare il luogo di origine della materia prima e il luogo della trasformazione industriale. Il passo successivo è il vincolo a utilizzare il marchio “Made in Italy” solo per i prodotti interamente italiani. I suinicoltori hanno lanciato l’invito, tocca ora alle industrie raccoglierlo, tanto più se queste ultime vogliono assicurarsi l’approvvigionamento di “materia prima” indispensabile per la produzione di trasformati a marchio Dop o comunque per realizzare salumi di qualità. La lunga crisi di mercato, con prezzi del vivo insufficienti persino a coprire le spese di produzione, hanno messo alla prova molti allevamenti. E tanti hanno già dovuto chiudere i battenti. Valorizzare il prodotto Made in Italy con regole chiare e trasparenti, con un occhio di doverosa attenzione anche ai diritti del consumatore, può rappresentare un’utile via di uscita dalla crisi della suinicoltura italiana. Nell’interesse non solo degli allevatori, ma della stessa agroindustria.