Una ricerca in corso di pubblicazione, ma già circolante come "pre-proof", riporta alcuni risultati ottenuti in vitro dai ricercatori della Monash University di Melbourne utilizzando ivermectina su alcune colture cellulari infettate artificialmente con il Covid-19.

Altissimo parrebbe il livello di controllo, misurato in termini di riduzione dell'Rna virale: in sole 48 ore tale riduzione sarebbe stata di ben cinquemila volte. Dopo 24 ore dalla somministrazione di 5 µM (micromoli) di ivermectina si sarebbe osservata una riduzione del 93% dell'Rna virale, percentuale salita al 99,8% in 48 ore.

Considerando però il peso molecolare di ivermectina, pari a 875,1 g/mol (grammi per mole), la dose impiegata nelle prove australiane non appare esattamente "omeopatica". In più, è stata somministrata a colture cellulari infettate dal virus, quindi applicata direttamente sul target senza passare attraverso alcun organismo.

Considerando quindi tali condizioni sperimentali, è bene richiamare alla prudenza anziché esultare per il risultato ottenuto, poiché la somministrazione di ivermectina a un malato di Covid-19 è il vero scoglio da superare, visto che la molecola ha comunque una sua tossicità intrinseca che rischia di inficiare qualsivoglia effetto terapeutico in vivo. La principale perplessità su una terapia a base di ivermectina è legata infatti alla sua neurotossicità, causando nella maggior parte dei mammiferi un variabile grado di depressione del sistema nervoso centrale.

In sostanza, è bene evitare la situazione nella quale "L'intervento è riuscito, ma il paziente è morto". Ciò conferma quanto già si sapeva da tempo sui test in vitro: bene come screening, malissimo come conclusioni, soprattutto quando tirate in modo frettoloso e imprudente.

Forse si potranno sviluppare appositi aerosol a base di invermectina, in modo da concentrare la molecola solo dove serve, cioè nei polmoni? Chissà. La ricerca non ama la fantascienza e va avanti per piccoli passi, ognuno dei quali è mosso solo dopo aver verificato la bontà del precedente.

Non resta quindi che auspicare sviluppi promettenti anche nei test in vivo su cavie, passo irrinunciabile prima di passare eventualmente a test preliminari su malati di Covid-19. Nel frattempo, piedi per terra e poche illusioni.

Decisamente curioso e ironico sarebbe, però, se a salvare vite umane da un virus letale fosse un pesticida. Se ciò dovesse trasformarsi in realtà, alla primaria speranza di salvare vite si aggiungerebbe anche il secondario gusto della rivincita nella bocca di chi da decenni prende insulti immeritati e viene accusato ingiustamente di avvelenare il mondo. Le probabilità che ciò accada sono decisamente basse, ma sognare, in fondo, costa nulla.
 

Una nobile famiglia chimica  

Le "mectine" sono sostanze attive note da decenni in agricoltura e veterinaria per la loro azione antiparassitaria. In campo veterinario a farla da padrona è proprio l'ivermectina, antielmintico usato su grandi e piccoli animali, perfino negli allevamenti biodinamici.

In fitoiatria si possono invece citare abamectina, milbemectina ed emamectina benzoato. Per esempio l'abamectina, sostanza attiva di uno storico insetticida/acaricida, il Vertimec di Syngenta, è sinomimo di avermectina B1, un composto derivato da un batterio presente nel suolo, ovvero lo Streptomyces avermitilis, il quale ha fornito lo spunto per lo sviluppo delle varie "mectine" oggi utilizzate.

Interessante notare come buona parte delle strutture molecolari delle quattro "mectine" citate abbiano fra loro molte somiglianze e corrispondenze (vedi figg. 1, 2, 3 e 4, da Fitogest.com).
 
Struttura molecolare di ivermectina
Fig. 1: Struttura molecolare di ivermectina

Struttura molecolare di abamectina
Fig. 2: Struttura molecolare di abamectina
Struttura molecolare di milbemectina
Fig. 3: Struttura molecolare di milbemectina

Struttura molecolare di emamectina benzoato
Fig. 4: Struttura molecolare di emamectina benzoato
 

Storia delle "mectine"

La scoperta di tale famiglia chimica risale a metà degli anni '70 e spetta al lavoro dei ricercatori dell'Università Kitasato di Tokyo che lavorano in collaborazione con il Merck Institute for Therapeutic research. Il derivato più efficiente e dalla minor tossicità venne battezzato ivermectina, la quale fu lanciata sul mercato nel 1981.

La scoperta venne premiata poi con il Nobel per la medicina, del 2015, a fronte dei grandi risultati ottenuti contro l'oncocercosi, nota anche come "cecità fluviale". In quel caso erano dei nematodi gli organismi target. Veicolati da alcuni insetti, tali parassiti colonizzavano gli ospiti annidandosi soprattutto negli occhi. Da qui la cecità. I Paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea ben ricordano gli effetti di tale parassitosi.

Nel tempo giunsero poi altre "mectine", sviluppate anche per scopi fitosanitari e tutt'oggi in uso.

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