Quando si parla di biologico si rischia di cadere nell'ovvio e, soprattutto, si rischia di propinare il vecchio luogo comune che vorrebbe gli agricoltori e, in particolare, i consumatori, fra pro e contro il bio, fra chi crede in tale modello produttivo e ne è convinto fino allo schianto e chi invece lo reputa se non una pratica al confine con il naturalismo, qualcosa come una soluzione non idonea a sfruttare le capacità produttive della terra. Pertanto, chi farebbe biologico non sarebbe adeguatamente attento alla redditività dell'azienda agricola, preferendo inseguire l'ideologia. Nulla di più obsoleto.

 

Da alcuni anni (2019), il biologico è al centro dell'attenzione della Commissione Europea, che attraverso il documento del Green Deal spinge per raggiungere un obiettivo particolarmente ambizioso: fare in modo che il 25% della superficie agricola dell'Ue si converta al biologico entro il 2030. Per fare questo ha stanziato risorse, aiuti, finanziamenti che passano dalla Politica Agricola Comune ai fondi Next Generation EU (trascinamento della vecchia Pac, con sostegni specifici per fronteggiare l'emergenza pandemica), fino al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr).

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Nella programmazione 2023-2027, l'Italia potrà contare su 2,13 miliardi destinati allo sviluppo del biologico all'interno dei Programmi di Sviluppo Rurale, ai quali si debbono aggiungere circa 300 milioni di euro nell'ambito del Pnrr.

 

I numeri - utilissimi per ricordarci che l'Italia è ai primi posti in Europa per superfici condotte in regime biologico (intorno al 17,4%), con l'Austria che ha già superato la soglia del 25% e l'Europa Nord-Orientale, dalla Svezia all'Estonia, molto vicina al raggiungimento del target fissato dalla Commissione von der Leyen - se da un lato hanno il vantaggio di essere oggettivi e di raccontare o fotografare una determinata situazione, dall'altro necessitano inevitabilmente di essere interpretati.

 

Dando per scontato un futuro per il biologico, è bene chiedersi da dove passa la ripresa dei consumi (l'inflazione e il minore potere di acquisto delle famiglie hanno eroso i consumi, benché gli aumenti dei prezzi di vendita non lo rendano così evidente), ma anche il futuro delle conversioni, per i quali negli ultimi anni si è assistito a una frenata delle vocazioni, per prendere a prestito terminologie religiose che ben si adattano al linguaggio del biologico.

 

Anche per questo c'è una spiegazione. Quando a partire dal 2018-2019 la Cina ha iniziato ad importare notevoli quantità di cereali e semi oleosi, infiammando progressivamente le quotazioni di mais, frumento, soia, il gap fra i listini delle produzioni convenzionali e di quelle biologiche si è andato riducendo. E quando le quotazioni delle commodity salgono con accelerazioni brusche, il sistema del biologico in un primo tempo si adegua e segue tali rialzi, ma successivamente rallenta la propria corsa, così che la forbice fra i prezzi del convenzionale e del bio si riduce.

 

Diventa dunque meno allettante produrre un cereale biologico, destinato alla produzione di pane o di pasta, se l'agricoltore deve fare i conti con una minore resa in campo, costi di produzione più alti del convenzionale e prezzi alti, sì, ma non sufficientemente da garantire una marginalità più elevata? Diverso è il caso delle produzioni a più alto valore aggiunto, dall'ortofrutta al vino, ma quando interviene l'inflazione e le famiglie devono fare i conti con altre priorità (il boom della spesa energetica, ad esempio, nel 2022), ecco che anche il carrello della spesa si orienta in altre direzioni.

 

Resta aperta la vera molla del biologico: quella culturale. Chi fa biologico, e i primi a ricordarlo sono gli operatori stessi, lo fa spinto da una vocazione, che abbraccia lo stile di vita, di alimentazione, di educazione, di approccio alla vita. E con questo non vogliamo dipingere chi sposa una filosofia bio come un illuminato e tutti gli altri come dei primitivi (o viceversa). Molto semplicemente vi è una visione e una sensibilità differente ed entrambe devono legittimamente stare sul mercato, offrire i propri prodotti di qualità e poter investire nella crescita futura.

 

Volutamente non entriamo nel dibattito sui vantaggi e sui limiti di entrambi i modelli, per non cadere nelle antiche e forse in parte anche superate dicotomie sul biologico che produce meno e che non si sa se effettivamente ha minori emissioni o, ancora, sui vantaggi di un sistema "organic" per alcune realtà imprenditoriali dove il solo essere convenzionale significherebbe avere maggiori difficoltà di sopravvivenza (piccolissime realtà, aree svantaggiate) con conseguente rischio di abbandono delle aree rurali.

 

Quello che ci sembra utile proporre come riflessione è l'invito a compiere un salto di qualità in chiave tecnologica. Non bisogna cadere nell'equivoco che biologico significhi amatoriale, hobbistico, ad innovazione tecnologica zero. Tutt'altro. Proprio perché viene meno il prezioso presidio della chimica, chi opta per un percorso bio dovrebbe ricorrere ad un maggiore approccio tecnologico, con soluzioni magari robotizzate per diserbi meccanici o elettrici, centraline meteo per razionalizzare l'utilizzo di acqua, biostimolanti e soluzioni di fertilizzazione di precisione, eccetera.

 

Non ultima la soluzione che sembra stia avendo una lenta diffusione, legata all'adozione degli Nft, Non Fungible Token, per iniziative di marketing, comunicazione, certificazione tramite blockchain, particolarmente apprezzate all'estero, dove i mercati più evoluti cominciano a guardare tali sistemi informatizzati con curiosità e dove il biologico italiano ha grandi opportunità di rafforzare la propria posizione.

 

Per le imprese agricole del biologico è tempo di investire, perché la strada obbligata è quella della competitività e della redditività.