Dopo l'Inter, forse il Milan, se vogliamo prenderla da lontano. La Cina è vicina, come scriveva Enrico Emanuelli nel 1957, e quel che è certo è che, lasciando il calcio per l'agroalimentare, ha cambiato strategia.
Si sono rallentati gli investimenti selvaggi in Africa, in seguito ai quali gli studiosi e l'opinione pubblica parlarono di land grabbing, di corsa alla terra, di accaparramento ossessivo delle risorse del pianeta nel continente nero.

Questa, almeno, è l'opinione prevalente, anche se per dovere di cronaca non possiamo non segnalare l'uscita recente del libro di Debora Brautigham, della John Hopkins University.
La studiosa contesta con il volume "Will Africa feed China?" tale visione, alimentata in seguito al saggio di Lester Brown "Who feed China?" (1995) e a una moltitudine , questa sì, di microprogetti cinesi in Africa.
Eppure, i principali investitori stranieri sul suolo africano sarebbero gli Stati Uniti, gli Emirati Arabi, l'Arabia Saudita, seguiti da Gran Bretagna e India.

Lasciando libertà di opinione (dopo essersi adeguatamente informati), è opportuno tuttavia notare che oggi la strategia del Paese del dragone si è diversificata e non ha mancato, proprio per questo ampliamento dei margini di manovra, di scatenare ipotesi complottiste e dietrologie. Con ordine.

La Cina sta rivoluzionando i flussi commerciali, essendo uno dei più grandi paesi importatori di un buon numero di materie prime. Contemporaneamente, sul fronte interno sta adottando una politica di crescita, anche della qualità, della propria agricoltura.
Al di fuori dei propri confini, la Cina ha messo gli occhi sulle terre dell'Australia.
Lo scorso febbraio le autorità australiane convalidavano l'acquisto, per 189 milioni di euro circa, della Van Damien's Land Company (Vdl), proprietà di neozelandesi, da parte di Lu Xianfeng. Si tratta della più grande azienda lattiera australiana (30mila vacche su 25 siti).

Ora i riflettori dell'ex Celeste Impero sono puntati sull'azienda Kidman & Co: 185mila capi di bestiame e un'estensione di 101mila chilometri quadrati di terra, superiore al Portogallo, ha rilevato il quotidiano francese Liberation.
Il gruppo cinese Pengxin avrebbe messo sul piatto la bellezza di 236,4 milioni di euro per portare a casa quella che è la più grande azienda agricola del Paese.

Numeri, insomma, che hanno acceso il dibattito anche nel nuovissimo continente, tanto che il governo australiano ha modificato la propria legislazione, abbassando lo scorso anno la soglia oltre la quale gli investimenti stranieri devono essere approvati dall'amministrazione.
Il tetto, prima fissato a 252 milioni di dollari australiani (170,2 milioni di euro), è sceso a 15 milioni (pari a circa 10 milioni di euro).

Come era ovvio, l'opinione pubblica è divisa tra i favorevoli e i contrari a vendere ai cinesi. Il mondo agricolo, da quanto si apprende, sembrerebbe meno chiuso agli investimenti esteri, come confermato dalle parole di Charlie McElhone, di Dairy Australia, l'organizzazione che rappresenta la filiera del latte: "Abbiamo bisogno e vogliamo più investimenti, compresi quelli provenienti dalla Cina. Possono creare posti di lavoro, aumentare la produttività, migliorare il nostro accesso ai mercati".

I cinesi guardano, contemporaneamente, alla diversificazione degli investimenti e alla qualità. Si spiegano così le incursioni nel dorato mondo del vino francese. Qualche esempio. Il fondatore di Alibaba, Jack Ma, quello che all'ultimo Vinitaly di Verona, dialogando col premier Matteo Renzi, ha annunciato la "giornata del vino online" il prossimo 9 settembre dalle ore 9 (in Cina il nove è anche sinonimo di vino), ha acquistato un castello del XVIII secolo con 85 ettari di vigneti a Bordeaux.

Sono stati ampiamente superati i 100 Château acquistati da gruppi asiatici nella zona del Bordeaux. E, solo pochi mesi fa, Li Zefu, responsabile operativo della Cofco Greatwall Winery, annunciava a WineNews: "Dopo Cile e Bordeaux vorremmo investire in Australia e in Italia".

Dichiarazioni d’intenti e operazioni che hanno generato panico e sciovinismo. E se invece gli acquisti cinesi non fossero una sciagura?
Il caso dei riconoscimenti delle Dop francesi è emblematico. La Cina ha reso noto, durante l'ultimo G20 dell'Agricoltura, giocato in casa a Xian, la volontà di "riconoscere 45 denominazioni di vino di Bordeaux".
Decisione accolta favorevolmente dagli operatori del settore, dal momento che nel Paese del dragone, secondo alcuni esperti, il 40% dei vini importati sarebbero dei falsi.
Un numero elevatissimo, al punto che in un rapporto dei Consiglieri del commercio estero di Francia (aggiornato a maggio 2015), sarebbe stata usata l'espressione "industrializzazione della contraffazione".

Ora la Cina sembra voler compiere un passo decisivo verso la convergenza con la posizione di Parigi "sul concetto di Indicazioni geografiche protette" dei prodotti agricoli, come ha riconosciuto anche il ministro francese dell'Agricoltura, Stephane Le Foll.
Un atteggiamento che si spiega sia perché Pechino punta a difendere i numerosi connazionali che hanno investito nei vigneti francesi sia perché la Cina tenta di ottenere il riconoscimento di alcune sue denominazioni.

Grandi movimenti, dunque, che allungano l'ombra della Repubblica popolare ben oltre la Grande Muraglia, come dimostra brillantemente l'acquisto della società svizzera Syngenta da parte di ChemChina per 43 miliardi di dollari, maxi-operazione che avrà sicuramente conseguenze a livello mondiale.