Leggendo i principali quotidiani si trovano notizie che lette tal quali suscitano ottimismo e un sottile piacere in chi ha fatto del mondo agricolo il proprio percorso professionale.
Sarà perché la necessità aguzza l'ingegno, e a volte abbassa anche le pretese, ma le assunzioni nelle aziende agricole sarebbero infatti cresciute nell'ultimo anno del 3,6%.
Coldiretti appare molto convinta su questo tema e in questi articoli assicura che da qui al 2016 si creeranno decine di migliaia di nuovi posti di lavoro.
Non sarebbero pochi infatti quelli che oggi vagheggiano di tornare a fare i contadini, come pure sono nati movimenti che chiedono il recupero in chiave agricola di terreni pubblici lasciati abbandonati.

Analizzando la cronana recente, del resto, due fenomeni si sono evidenziati negli ultimi dodici mesi: da un lato sono scese le iscrizioni alle università, dall'altro sono aumentati i giovani che si giocano le proprie carte in agricoltura. Soprattutto sul primo fenomeno non ci si deve stupire, dato che vi sono certe università che sembrano più che altro delle fucine di disoccupati. La susseguente ricerca di qualifiche sempre più alte ha quindi riempito all'inverosimile dottorati, master e corsi post-universitari. Tutti titoli che si sono dimostrati anch'essi di dubbia utilità ai fini lavorativi. Il risultato finale, purtroppo, è stato spesso quello di affollare i call-center di laureati a pieni voti e le piazze italiane di ragazzi che tirano sampietrini alla Celere.
E così, dal Master in design e dall'organizzazione di eventi pare sia arrivato il momento di passare alla coltivazione delle carote e alla raccolta del porro tipico di Cervere (Cn). 

Numeri e buon senso


Quello del ritorno all'agricoltura è da considerare un travaso di orientamenti invero clamoroso, soprattutto pensando a quanto sia sempre stato alto il disprezzo verso il ruolo  dello "zappaterra" manifestato da larghe fette di popolazione cittadina un po' snob.
Oggi invece zappare la terra appare meno rozzo, meno volgare. "E poi almeno così si mangia".
Già, perché alla fine il Tempo è galantuomo e con una profonda crisi economica ci ha ricordato che dopo respirare e bere la terza priorità per restare in vita è proprio mangiare.
Ben venga quindi l'ondata di resipiscenza che sembra animare i nostri giovani. Resta però un dubbio: può davvero l'agricoltura fungere da mercato alternativo del lavoro su ampia scala? Ovvero, può farcela l'agricoltura a sgonfiare le liste di disoccupazione e i call-center?
La risposta è semplice: no.
Vi sono infatti strade che una volta percorse in un senso non è più possibile ripercorrerle in senso inverso. O per lo meno, non con la medesima estensione e non con lo stesso successo.

Solo dal 1970 la popolazione è passata da poco più di 54 milioni a quasi 60. Per contro, nel 1970 la Sau italiana sfiorava i 17,5 milioni di ettari e aveva già perso circa un milione di ettari rispetto al 1960. Nel 2000, in trent'anni, era già scesa a poco più di 13 milioni, ovvero una contrazione di circa il 25%. Negli ultimi dieci anni il calo è poi proseguito lasciando sul campo un ulteriore 2,3%, facendo scendere la Sau attuale a poco più di 12,8 milioni di ettari. (Fonte: Istat: Censimenti generali dell’agricoltura italiana).
Un trend, questo, iniziato da lontano, visto che la popolazione italiana dal 1950 è cresciuta del 28%, quasi tutta inurbata nelle città. Nello stesso periodo è stata cementificata una superficie pari alla Calabria (Fonte: Ispra, 2010).
 
Osservando i numeri, la semplice morale che si può trarre da essi è che una volta vi era una superficie coltivabile ampiamente maggiore e una popolazione da mantenere ampiamente inferiore. Per quanto la riscoperta dell'agricoltura come lavoro sia quindi un'ottima notizia, non si può ignorare come ciò rappresenti solo una goccia in mezzo al mare dell'attuale tragedia disoccupazionale italiana, specialmente di quella giovanile.
In tali cupi scenari, e visto il coriandolo lavorativo rappresentato dall'agricoltura sul totale nazionale, l'incremento del 3,6% delle assunzioni sposta infatti quasi di nulla il dato complessivo dei nullafacenti. Ciò dovrebbe indurre toni meno trionfalistici di quelli utilizzati da più parti, suggerendo di mantenere i piedi ben saldi per terra. Un consiglio che acquisisce ancor più valore dal momento che proprio di terra si sta parlando.
Peraltro, anche se questo trend di ritorno alla zolla dovesse aumentare, l'attuale Sau renderebbe fisicamente impossibile l'assorbimento di un numero significativo di posti di lavoro.
Infine, nemmeno l'utilizzo a scopi produttivi delle superfici demaniali inutilizzate potrebbe aiutare più di tanto, vista l'estrema frammentazione e marginalizzazione di questi terreni. Più che di agricoltura si dovrebbe in tal caso parlare di una moltiplicazione degli "orti dei nonni". Solo che al posto dei nonni a portare la zappa sarebbero i nipoti. Nipoti che, sia chiaro, alla zappa non ci tornano "per scelta", bensì per obbligo. Perché molti di loro, vi è da scommettervi, avrebbero preferito restare in città a fare gli architetti o i grafici pubblicitari anziché andare sotto i cavalcavia abbandonati e coltivare fragole e peperoni.

Non è quindi per gelare animi ed entusiasmi, ma è bene ricordare come non vi siano più le condizioni per compiere a ritroso il cammino che negli Anni 50 e 60 portò allo spopolamento delle campagne e all'esplosione delle città. È cioè di fatto impossibile far tornare l'Italia a qualcosa di lontanamente simile a quel romantico Paese agricolo che era nel secondo Dopoguerra.
Un doveroso richiamo va quindi indirizzato a chi suona le trombe del successo occupazionale agricolo: se non sono ben ponderate, le aspettative possono solo rivelarsi false e quindi deludenti.
Ed è sbagliato, ingiusto e rischioso illudere milioni di disperati con speranze irragionevoli.