Export agroalimentare: la Germania batte il made in Italy 27 a 18.

Un recente articolo comparso sul Corriere della Sera sulla capacità di vendere prodotti agricoli e alimentari sui mercati internazionali ha lanciato un macigno che in una qualche misura ha incrinato il “mito” del primato italiano, con le sue eccellenze alimentari  e la lunga collana della premiata ditta Dop.
Ma come, si sono chiesti in tanti, possibile che wurstel e crauti possano  avere più successo rispetto a un prosciutto Dop con la testa coronata o un variopinto radicchio trevigiano?
E’ possibile, anzi vero.
E il confronto con la Germania, come vedremo, non è un caso isolato sul quadrante europeo.

Se lo spread nei confronti dei tedeschi viaggia intorno ai 10 punti, anche con gli "odiati" cugini transalpini le cose non vanno meglio, con circa 7 punti di differenza. Perfino la Spagna, che negli anni del boom economico aveva brindato al famoso sorpasso sul Pil italiano - sgonfiato prima da una più attenta verifica degli indicatori macro-economici, poi definitivamente sepolto dallo tsunami della crisi economica - nell'export alimentare fa meglio del Bel Paese, con un vantaggio di 5 punti.

Nella sua doverosa difesa d'ufficio, affidata a un'intervista rilasciata sempre al Corriere della Sera, il ministro Catania ha spiegato che il gap con la Germania deriva dal fatto che loro producono più di quanto consumano, invece in Italia le cose stanno diversamente. Così i francesi, hanno dalla loro le potenti catene distributive con una vocazione internazionale molto spinta, pronta sfruttare le potenzialità dei grandi mercati che si stanno aprendo ai prodotti europei, come l'immenso mercato cinese.
Tutto vero, ma forse non basta a spiegare completamente i ritardi del made in Italy. Come spiegare allora che davanti all'Italia c'è, sia pure per un'incollatura, anche l'Inghilterra, che pure non vanta una importante tradizione alimentare né ha una grande agricoltura a monte del sistema agroalimentare?

Ci sono debolezze strutturali che partono da lontano, come la frammentazione produttiva sia per quanto riguarda le aziende agricole che la galassia di piccole imprese industriali e artigiane. Ma anche debolezze, altrettanto ben note, del sistema Paese nel mettere a disposizione di chi vuol cavalcare l'onda dei mercati esteri gli strumenti necessari per favorire l'internazionalizzazione. 
A partire dall'attività di promozione: avanti tutta in ordine sparso, mentre proprio in questi mesi si assiste alla messa in liquidazione di Buonitalia. Doveva essere l'equivalente della Sopexa francese, e invece è finita sul binario morto dei tanti carrozzoni, incorporata nella nuova Ice, rinata dalla ceneri del vecchio Istituto per il commercio estero che era stato a sua volta cancellato dal precedente Governo. Un gioco dell'oca, che fa solo perdere tempo, mentre i famosi mercati, soprattutto quelli emergenti, galoppano.

Ritardi che  non aiutano certo a rafforzare il made in Italy. Mi riferisco alle quote di mercato, non certo all'immagine: quella chi la scalfisce.
Corre veloce di bocca in bocca, coccolata dai falsari del made in Italy ai quali bastano un nome e un'immagine evocativa dei tanti simboli che hanno reso l'Italia famosa nel mondo per alimentare il loro fiorente business.

Oltre al danno, c'è anche una  beffa al sistema agroalimentare italiano, che poi, diciamolo con sincerità, non è che riesca a fare sistema.
L'interprofessione, ad esempio quella francese, salvo poche eccezioni è un modello non pervenuto in Italia. Le conclamate filiere, vista la tanto citata mala-distribuzione della catena del valore, non sembrano essere certo la casa comune ideale dove impostare una strategia condivisa per il bene comune nei diversi settori.
Se a ciò aggiungiamo l'eterno braccio di ferro tra agricoltori e industriali sull'etichetta d'origine delle materie prime - che si trascina da un decennio tra aule parlamentari nazionali e comunitarie senza risultati concreti - ci sembra che parlare di "sistema" sia francamente un eccesso di ottimismo.
E' il tallone d'Achille dell'agroalimentare nostrano, ma i tempi incalzano e se non si riesce a invertire la rotta i danni possono essere ancora più pesanti.
E in ballo non c'è solo l'export.

La stessa riforma Pac, per quanto emerge da questa prima fase di negoziato, ha messo al centro della nuova politica di sostegno il ruolo-chiave  delle Organizzazioni dei produttori. Così nel pacchetto latte, varato di recente da Bruxelles: niente soldi agli agricoltori, ma una più attenta regolazione dei mercati e un ruolo più forte delle Op.

E anche per i diritti di impianto dei vigneti, le recenti aperture del Commissario Ciolos sembrano orientate a valorizzare il ruolo dell'Interprofessione e delle Organizzazioni produttori, piuttosto che lasciare in vita il divieto di nuovi vigneti.

Per l'agricoltura la sfida è doppia: riorganizzarsi al suo interno per dialogare alla pari con l'industria e con essa costruire un sistema più efficiente e più competitivo; potenziare le sue Op per essere all'altezza del ruolo di organizzatore dell'offerta che la nuova Pac intende affidargli.

Serve un cambio di passo dal mantra del Km0 (tanto i mercatini chi glieli toglie ormai ai contadini), alla formula del "Km lanciato" verso i "mercatoni" mondiali, necessari per portare più valore all'intera filiera, da distribuire in misura più equa.