Dopo i primi casi di peste suina africana (Psa) nei cinghiali, quasi due anni fa, il virus è riuscito a entrare negli allevamenti di suini.

È accaduto poche settimane fa in provincia di Pavia e ora sono 18 i focolai accertati nei suini, in prevalenza nelle aree limitrofe. Altri, purtroppo, se ne aggiungeranno.

Non sono stati sufficienti i recinti (ancora incompleti) per fermare i cinghiali e nemmeno il loro "depopolamento", come oggi sono definiti gli abbattimenti.

Anche le misure di biosicurezza adottate negli allevamenti professionali non hanno fermato un virus che fra le sue caratteristiche annovera forte resistenza e grande virulenza, come in passato descritto più volte da AgroNotizie®

 

Forte allarme

Il riscontro di nuovi focolai di peste suina africana negli allevamenti ha aumentato il livello di allarme ed è recente l'ordinanza del Ministero della Salute che detta norme ancora più severe per il contenimento dell'infezione.

Intanto Bruxelles ha aggiornato le aree soggette a restrizione, che ora comprendono molti comuni del pavese e altri delle province di Parma e Piacenza.

Aree che si aggiungono a quelle di Piemonte, Liguria, Lazio e Calabria, già segnalate per la presenza del virus nei selvatici.

Poi la Sardegna, dove la peste suina africana è presente dal 1978 e che ancora oggi vede interessati, con misure di restrizione diverse, comuni delle province di Nuoro, Oristano e Sassari.

 

L'intervista

L'esperienza della Sardegna, che per tanti anni ha combattuto questo virus, ci dice quanto sia complicato e difficile liberarsene.

Ma i lusinghieri risultati ottenuti in questi ultimi anni sono un esempio dal quale trarre spunto per evitare che la peste suina africana possa espandersi ulteriormente e compromettere il futuro della suinicoltura italiana.

Di questo abbiamo parlato con Giuseppe Pulina, professore ordinario di Etica e Sostenibilità delle produzioni animali all'Università di Sassari, che ben conosce l'evolvere della situazione in Sardegna.

 

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Giuseppe Pulina, professore ordinario di Etica e Sostenibilità delle Produzioni Animali all'Università di Sassari e presidente di Carni Sostenibili

(Fonte: Giuseppe Pulina)

 

In questa regione, gli chiediamo, i risultati più importanti nella lotta alla peste suina africana iniziano nel 2018 per proseguire negli anni successivi. Cosa è cambiato rispetto a prima?

"La strategia risolutiva contro il perpetuarsi del contagio della Psa - ci ha risposto Pulina - è stata varata dalla giunta di Francesco Pigliaru con la costituzione di una unità di crisi coordinata dalla presidenza della Giunta regionale, è stata quella di combattere il pascolamento di suini bradi illegali (in quanto non denunciati dai proprietari) mediante l'abbattimento, di monitorare virulenza e positività nei cinghiali abbattuti durante la stagione venatoria e di rafforzare la sorveglianza attiva presso l'universo degli allevamenti suini dell'Isola, unitamente alla imposizione di misure di biosicurezza molto restrittive e di una costante opera di informazione degli allevatori e coinvolgimento delle associazioni agricole maggiormente rappresentative.

Senza dimenticare la tempestività di intervento presso i focolai e il rispetto delle zone di restrizione conseguenti.

 

Ricordo che la Sardegna rappresenta un unicum nell'allevamento nazionale con molte aziende di piccolissime dimensioni e con una grande diffusione della pratica di allevamento del maiale per uso familiare, oltre che essere la prima regione italiana sia per copertura forestale, con popolazioni selvatiche di grandi dimensioni, sia per presenza di terre pubbliche nelle quali storicamente si esercita il pascolamento in comunella, in cui il contatto fra domestici e fra questi e il selvatico è normale.

Questi aspetti peculiari hanno per molti anni vanificato i diversi piani di eradicazione che sono stati attuati nell'isola e, nel caso dell'ultimo vincente intervento, hanno impegnato non poco i servizi veterinari Asl, dell'Istituto Zooprofilattico e gli altri attori (Assessorato, Agenzia regionale Forestas, corpo forestale, ministero, prefetture) nel raggiungere gli obiettivi previsti e nel monitorare costantemente l'evoluzione del quadro epidemiologico"

 

Anche nelle ultime delibere della Regione si punta il dito contro gli allevamenti bradi non confinati. Se non riconducibili a un proprietario se ne prevede l'abbattimento.

Significa che l'allevamento brado ha i giorni contati e non solo in Sardegna?

"Il brado se non esercitato con misure di biosicurezza ben progettate (doppia recinzione, percorsi definiti per animali e persone, quarantene e controllo sierologico costante) è il modo più efficace per diffondere ed endemizzare la Psa.

Il contatto fra domestico e selvatico irrobustisce la catena epidemica in un circolo vizioso che deve assolutamente essere interrotto e la prescrizione di un brado controllato e biosicuro è la migliore via per bloccare la trasmissione. 
Sicuramente, a piano di eradicazione compiuto con un silenzio epidemiologico sufficientemente lungo nelle popolazioni domestiche e selvatiche, sarà possibile tornare a un brado meno ristretto, come è accaduto in Spagna dove, sconfitta la Psa, oggi il pascolamento delle Dehesas è uno dei punti di forza della suinicoltura iberica".


La Sardegna ha posto l'accento sul controllo dei selvatici, nel nostro caso in particolare i cinghiali. Si dovrà attuare nel resto di Italia un controllo altrettanto severo?

"Come ho detto prima, questo è indispensabile per indebolire la catena del contagio, ma unitamente alla verifica sierologica dei campioni prelevati di ciascun cinghiale abbattuto, sia nel corso delle operazioni di depopolamento sia nelle giornate di caccia ordinaria indispensabile per operare un controllo continuo della circuitazione virale".

 

In prima linea nella lotta contro la peste suina africana ci sono i servizi veterinari del ministero della Salute e i loro colleghi liberi professionisti. Non meno importante è la collaborazione degli allevatori ai piani di eradicazione. Quali gli strumenti per un loro maggiore coinvolgimento?

"Gli allevatori hanno svolto un ruolo determinante, innanzitutto innescando un movimento di opinione nelle campagne favorevole alla eradicazione della malattia e isolando i detentori di maiali illegali.

Inoltre, si sono disciplinatamente sottoposti a centinaia di migliaia di prelievi dai propri animali e hanno garantito una vita monacale agli allevamenti per evitare il più possibile contatti con eventuali vettori di malattie, anche umani.

Infine, coloro che sono emersi dall'illegalità hanno fatto una scelta coraggiosa, a volte a favore dei figli che hanno potuto continuare ad allevare maiali alla luce del sole".


Gli allevatori sono solo il primo anello di una filiera produttiva che vede molti protagonisti, dai produttori di mezzi e strumenti per gli allevamenti al complesso mondo della trasformazione delle carni suine. Quale può essere il loro contributo nella lotta alla peste suina africana?

"In Sardegna i trasformatori per poter mantenere un mercato aperto sul continente hanno per decenni dovuto importare carni dall'esterno della Sardegna.

La loro pressione sulle autorità e sugli allevatori è stata determinante per continuare nel percorso severo intrapreso dal piano di eradicazione ultimo e per incentivare gli allevatori a collaborare al fine di rendere l'Isola parte integrante di una filiera nazionale ed europea".

 

Il consumo di carni suine non comporta rischi per l'uomo che non può contrarre la malattia in alcun modo, nemmeno per contatto diretto con gli animali infetti. L'uomo però può essere inconsapevolmente un veicolo di diffusione del virus. Quali i comportamenti da evitare?

"Le carni, anche infette, sono sicure. Di solito però non sono consumate perché lo stato febbrile del suino ne peggiora notevolmente la qualità. Inoltre, le carcasse infette vanno smaltite per interrompere possibili contagi.

Per quanto riguarda il veicolo umano, in molti casi la catena del contagio è passata dall'uomo in svariati modi.

La prevenzione e la severa attuazione di pratiche di biosicurezza sono l'unico modo per contrastare questa modalità di contagio.

Si può rischiare di essere anche molto antipatici, ma in allevamento non si ricevono visite e quelle necessarie devono essere messe in sicurezza sanitaria con le misure più restrittive possibili".

 

Una filiera da proteggere

L'ingresso della peste suina africana negli allevamenti italiani giunge in un momento particolarmente delicato per il settore.

Il prezzo dei suini è da tempo in aumento sospinto dalla minore disponibilità di prodotto sul mercato italiano ed europeo.

Pochi tuttavia i vantaggi per gli allevatori che hanno visto i margini erosi dal contemporaneo aumento dei costi, sia delle materie prime per l'alimentazione, sia dell'energia.

L'impennata del prezzo dei suini si è però riverberata sulle fasi della trasformazione, aggiungendosi all'aumento dei costi generali di produzione.

Situazione che potrebbe avere una via di uscita nell'aumento dei prezzi al consumo.

 

Una soluzione difficile da praticare, sia per le politiche antinflazionistiche che si stanno adottando, sia per il pericolo di un conseguente calo dei consumi. Un calo che l'allarme sanitario potrebbe accentuare sulla scia di un ingiustificato allarmismo.

Perché, come ha ricordato Giuseppe Pulina, la peste suina africana crea enormi danni agli allevamenti, ma è del tutto innocua per l'uomo.

I consumatori e gli stessi addetti agli allevamenti non corrono alcun pericolo.