Domanda piatta e produzioni in aumento. Se non è lo scenario peggiore per il latte, poco ci manca. Le ultime quotazioni del latte spot sulla piazza di Lodi indicano una flessione del prezzo di 1,32%, che porta il valore a euro/100 chilogrammi. Certo, parliamo sempre del 38,9% in più rispetto all'abisso di dodici mesi fa e, a ben vedere, l'altra piazza di riferimento nazionale (Verona) non ha segnato nell'ultima seduta del 6 marzo variazioni rispetto alla settimana precedente e qui siamo a +40,7% sui dodici mesi precedenti.

Una lettura serena dei dati di Clal.it, portale di riferimento mondiale per il mondo lattiero caseario, invita a non lasciarsi prendere dal panico. Assolutamente. Tuttavia, è necessario prendere la consapevolezza che anche nell'emisfero Sud il mercato non sta brillando.

I dati di ieri, 7 marzo 2017, del Global dairy trade in Oceania mandano segnali poco incoraggianti. Ad eccezione del burro 82% e della polvere di latticello, che segnano rispettivamente un incremento dell'1,2% e dell'8,4% rispetto all'asta precedente, tutte le altre voci sono in contrazione: -0,8% il burro anidro, -4,2% il cheddar, -4,3% il lattosio, per arrivare al -12,4% della polvere di latte intero e al -15,5% della polvere di latte scremato.

Nell'Unione europea a 28 le produzioni di latte hanno ripreso quota e il +0,62% delle consegne del 2016 rispetto al 2015 nasconde tendenze "a più velocità", per usare un'espressione piuttosto in voga nelle ultime riunioni a Bruxelles.
I dati di Clal.it indicano che le consegne complessive nel 2016 hanno toccato quota 153.223.000 tonnellate. Fra i "big player", sopra cioè i 10 milioni di tonnellate, solo Francia e Regno Unito hanno ridotto i volumi rispetto al 2015, rispettivamente del 2,50% e del 4,27%. Per gli altri il 2016 ha visto un incremento: Germania +0,30% (consegne a 31.973.000 tonnellate), Olanda +7,49% (consegne a 14.324.000 tonnellate), Polonia +2,40% (11.130.000 tonnellate).

L'Italia ha raggiunto un livello di produzione pari a 11.516, con un balzo in avanti del 3,18%, che per la Lombardia, prima regione lattifera, si è tradotto in un'accelerazione del 3,97% in più sul 2015.

Per gli amanti delle statistiche la Polonia, negli ultimi anni, ha incrementato la produzione e si è portata a ridosso dell'Italia. Con i trend di sviluppo della zootecnia da latte mantenuti con costanza dall'ingresso in Ue, la Polonia potrebbe superare i livelli lattieri made in Italy e passare dal sesto al quinto posto su scala europea.

E se i principali paesi esportatori del Sud del mondo hanno tirato il freno nel 2016 rispetto all'anno precedente, con 43.657.000 tonnellate prodotte (-6,1%, con punte del -10,1% in Uruguay e -14,4% in Argentina), una dinamica opposta si è verificata nell'emisfero Nord, con i principali paesi esportatori (Ue-28, Usa, Ucraina, Bielorussia e Turchia) che hanno incrementato le produzioni in equivalente latte dell'1%. In termini di volumi, le dimensioni sono ben diverse e si traducono in 276.323.000 tonnellate.

La situazione sarebbe comunque sotto controllo se non entrasse in gioco un'altra variabile rappresentata dalla totale stabilità della domanda. E con una domanda piatta e produzioni in aumento, il sillogismo non può che portare a conclusioni negative.

Che cosa fare, dunque? La filiera ha due alternative e, se rifiuta l'attesa passiva, non deve fare altro che organizzarsi e avviare un dialogo a livello trasversale fra le diverse componenti della catena che, quando funziona, porta a risultati positivi.
E' il caso, fra gli altri, della Francia, dove l'esperienza del marchio Cqlp (acronimo che sta per C'est qui le patron, cioè "chi comanda") si è tradotta in una vendita a prezzo calmierato del prodotto (99 centesimi un cartone di latte Uht parzialmente scremato), con una formula di remunerazione solidale che tenesse conto dei costi di produzione degli allevatori. L'esperimento ha portato a raggiungere in quattro mesi i cinque milioni di confezioni vendute, traguardo che era stato fissato come soglia annuale. Un vero e proprio boom che ha radicato un rapporto di alleanza fra produttore e consumatore.

Nel Regno Unito, il gruppo tedesco Müller ha pensato di razionalizzare le posizioni contrattuali dei propri 1.900 fornitori. Lo ha ricordato Leo Bertozzi sul portale Teseo by Clal, raccontando gli step che hanno guidato il colosso del latte. Innanzitutto, ha invitato gli allevatori a costituire una organizzazione di produttori, rispondendo con una maggiore flessibilità nei conferimenti. Müller ha stabilito di cancellare le penalizzazioni per chi sfora fino al 7,5% la produzione di latte prevista, mentre ha introdotto parametri migliorativi riguardo i contenuti di grasso.

Per valorizzare al massimo la materia prima, la multinazionale ha scelto di investire oltre 120 milioni di euro per migliorare l'efficienza degli impianti ed ottenere nuovi prodotti ad elevato valore aggiunto, rigorosamente con latte locale. Per contrastare la volatilità Müller ha poi proposto agli allevatori un nuovo contratto di fornitura, con la possibilità di indicizzare sul mercato futures una parte della loro produzione di latte. La palla passa agli allevatori, che dovranno scegliere i propri rappresentanti e rispondere alla mano tesa dell'industria tedesca.

Una lezione sul dialogo che anche in Italia andrebbe assimilata molto velocemente, perché un'eccessiva volatilità del prezzo del latte creerebbe scompensi anche all'industria lattiero casearia e farebbe affogare le stalle nazionale, che già scontano un gap di competitività rispetto ai colleghi del Nord Europa.
Stabilire prezzi remunerativi e lavorare con equilibrio e con lo sguardo rivolto al futuro sarebbe un ottimo risultato. Il resto, poi, lo faranno le buone performance commerciali a livello di export delle grandi Dop casearie made in Italy.