Curiosa vicenda questa di Parmalat. Gioiello dell'agroalimentare prima, emblema dei crack poi, conteso vessillo del Made in Italy oggi. Guidata da Enrico Bondi che l'ha portata fuori dalle tormentate vicende del dopo Tanzi, l'azienda di Collecchio è ora di fronte ad importanti svolte che si concluderanno prima dell'estate, con l'assemblea degli azionisti. E sono in molti che a colpi di azioni vogliono prendere in mano le redini dell'azienda. Fra i contendenti alla “scalata” figuravano alcuni fondi esteri con un pacchetto di azioni importante, il 15% o poco più. Azioni che ora sono passate nelle mani del gruppo francese Lactalis, e nei cui forzieri era già presente il 14,3% delle azioni Parmalat. La multinazionale francese, che ha già forti interessi in Italia dove possiede marchi importanti, ha ora in mano oltre il 29% di Parmalat e si candida alla guida del gruppo. Fra gli azionisti “minori” si annoverano importanti nomi come Intesa San Paolo e Assogestioni e si è insistentemente ricordato il possibile coinvolgimento della famiglia Ferrero, il “cavaliere bianco” che potrebbe salvare l’italianità del gruppo Parmalat. Ma gli spazi di manovra sembrano, al momento, limitati, e l’Italia corre il serio rischio di perdere un altro pezzo importante del “Made In Italy”. E così Coldiretti Lombardia invoca garanzie per il latte italiano visto che nelle mani francesi potrebbe finire il 10% del latte munto in Lombardia. La Cia chiede l’intervento del Governo perché “non si può assistere passivamente – ha dichiarato il presidente Giuseppe Politiall’assalto dello straniero in questo importante settore”. E per il presidente di Copagri, Franco Verrascina, siamo di fronte al “saccheggio” del Made in Italy. Ma già in precedenza il possbile passaggio di Parmalat in mani francesi aveva suscitato l’attenzione del mondo politico, a iniziare dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che si era detto alla ricerca di strumenti legislativi capaci di mettere al riparo l’italianità da acquisizioni “ostili”. Vedremo se il decreto legge varato in estremis il 23 marzo potrà rimettere in gioco una cordata italiana. Una vicenda, questa di Parmalat, della quale si sono occupati tutti i media e chi volesse approfondire l'argomento non ha che l'imbarazzo della scelta, dal “Corriere della Sera”, a “Il Sole 24 Ore”. Molte indicazioni si possono trovare anche su “Corpo 8” di questa settimana, inutile dunque ripetere cose che si possono leggere ovunque.

 

Il mercato del latte

Proviamo a osservare allora il quadro d’insieme da un altro punto di vista, quello del mercato del latte e dei rapporti fra industrie e allevatori. Partiamo dal prezzo del latte, fermo al palo dei 39-40 centesimi al litro, immobilizzato dalle tensioni sui mercati internazionali, in balia di un difficile equilibrio fra produzione mondiale ed evoluzione dei consumi. E poi si aggiungono i venti della speculazione che soffiano sul latte come sulle altre commodities agricole. Non c'è da stupirsi se il prezzo del latte è “volatile”, cioè instabile e altalenante, volatilità che giustifica in qualche modo le resistenze delle industrie del latte nel negare ai produttori aumenti anche quando il mercato è in ripresa, come in questi mesi.

La vicenda Parmalat dice però che il business del settore lattiero caseario, a dispetto di questa “volatilità” del latte, è assai allettante. In Italia vale poco meno di 22 miliardi di euro, ma di questo valore solo una parte modesta, appena il 23%, va nelle tasche degli allevatori. Alle industrie del latte resta la fetta più rilevante (41%) mentre il rimanente 36% è a vantaggio della distribuzione. Se lo squilibrio in favore di quest'ultima è evidente, la quota appannaggio delle industrie è significativa e da sola varrebbe a spiegare l'interesse verso l'acquisizione di un gruppo come Parmalat.

 

Il business del Made in Italy

Ma c'è di più. Parmalat vuol dire produzione italiana e il “Made in Italy” piace. Piace in molti settori come quello della moda e del fashion, tanto che solo pochi giorni fa il marchio Bulgari è finito, senza che nessuno battesse ciglio, nelle mani del gruppo francese (sempre loro...) Lvhm. E piace anche il “sapore” dell'agroalimentare Made in Italy. Non è un caso se proprio Lactalis ha già fatto ampiamente shopping in Italia accaparrandosi marchi storici fra i quali  Galbani, Invernizzi, Cademartori e Vallelata. Oggi anche Parmalat rischia di andare all'ombra della torre Eiffel, sempre che il decreto "antiscalate" varato il 23 marzo dal Governo non ribalti le carte. Ma il segnale è chiaro, il “Made in Italy” ha un forte richiamo e un valore intrinseco che non è ancora stato utilizzato appieno. Alla base di tutto c'è però il latte delle vacche italiane, che va pagato per quel che vale. E i margini ci sono, lo dice la catena del valore. Magari riducendo lo squilibrio a vantaggio delle industrie e della distribuzione. Queste cose gli allevatori le sanno, ma forse è giunto il momento di “alzare la voce” e di far sentire di più il loro peso nelle trattative con le industrie. Poi occorre mettere mano ad una seria valorizzazione del Made in Italy agroalimentare sui mercati internazionali. Lo spazio c'è e se così non fosse fatichiamo a capire tanto affanno per acquisire il controllo di un'azienda lattiera il cui “appeal” è nel nome piuttosto che nei fatturati, per quanto migliorati sotto la guida di Enrico Bondi. Che adesso si vorrebbe persino estromettere. Fondamentale il sostegno pubblico nella promozione del Made in Italy, ma non basta. Le industrie devono essere in grado di coordinare i loro sforzi e di attuare sinergie. E piacerebbe vedere la discesa in campo, con forza e convinzione, delle associazioni di settore, come Assolatte e Federalimentare. Perché i singoli difficilmente potranno avere risorse e competenze sufficienti. Con l'eccezione di qualche grande multinazionale. Magari francese. Che del “Made in Italy” valorizzerà solo quel che le conviene.