"Dopo 45 anni di attività nella veste di ricercatore – con un piede nell’apicoltura (in tante delle sfaccettature che la caratterizzano), metà dell’altro nella difesa delle piante dagli insetti e l’ultimo mezzo piede nella tutela dell’ambiente – ritengo sia venuto il tempo di condividere le mie posizioni rispetto a quella stressante propaganda che descrive le api vittime unicamente dei fitofarmaci e che le utilizza per promuovere la messa al bando dei medesimi.
Se è vero che per arrivare a produrre gran parte delle colture agrarie si beneficia dell’impollinazione, prevalentemente delle api, è altrettanto vero che le stesse colture, se non adeguatamente difese dalle avversità, non produrrebbero quanto l’agricoltore, giustamente, si attende. A monte di ciò, confesso che l’idea di scrivere questa lettera è scaturita dall’avere riscontrato come negli ultimi anni si stia parlando delle api a tutto tondo, talvolta a proposito, ma talvolta anche a sproposito.
Mentre un tempo l’ape era presa a simbolo di parsimonia, lavoro, ordine, saggezza e per questo motivo è stata stilizzata in gonfaloni di Comuni, logo di banche e ovunque ci fosse da richiamare determinate virtù che riconducessero a quelle dell’ape, più recentemente questo meraviglioso insetto è diventato soprattutto simbolo di naturalità e di qualità ambientale. Per tali ragioni è finito con l’apparire con i suoi prodotti fra i coformulanti di shampoo, alimenti o creme, infine è stata usata impropriamente la sua capacità difensiva legata all’aculeo e al veleno in film terrifici, sempre con ruoli cruenti e aggressivi, benché questo non sia nella sua natura. Ma non voglio allontanarmi troppo dall’argomento agricoltura-api-ambiente.
L’ape è al vertice di quella grande piramide, costituita da milioni di specie, che va a comporre la Classe degli insetti. Tante specie classificate e altrettante, se non di più, in attesa del riconoscimento scientifico. L’ape, con il suo primato evolutivo, presenta spiccati punti di forza e di debolezza, fra questi: la vita e l’organizzazione sociale, la comunicazione e l’indispensabile interazione fra soggetti della medesima famiglia, l’intimo rapporto con l’ambiente circostante, la sua coevoluzione con molti vegetali e tant’altro ancora. All’interno di queste caratteristiche sussistono delle fragilità quali il vincolo di convivere con le “sorelle”, perché mai potrebbero sopravvivere isolate, la compatibilità con l’ambiente – che fornisce le materie prime che permettono la vita delle famiglie – la possibilità di essere allevate, ma non addomesticate, la plasticità di adattarsi alle esigenze dell’allevatore ai fini produttivi e altro ancora.
Come precedentemente scritto, l’ape negli ultimi anni è stata oggetto di attenzioni – molte attenzioni – alcune disinteressate, altre meno. Purtroppo, “pasticci” generati dall’uomo hanno reso la sopravvivenza di questo insetto molto più precaria di quanto lo fosse fino a pochi decenni or sono. Potrei citare molti casi ma ne scelgo solo due emblematici, imputabili esclusivamente alla disattenzione e/o all’ignoranza umana: la prima legata alla diffusione dell’ape africanizzata, la seconda dovuta all’esportazione dai territori d’origine della Varroa (Varroa destructor). Vere e proprie calamità permanenti, talmente gravi da mettere a rischio la sopravvivenza dell’ape stessa (Apis mellifera). Per precisione d’informazione, altrettanti rischi sono in corso, si pensi alla Vespa velutina e altri artropodi pronti a salpare dai loro areali di origine per occupare gli allevamenti di api di tutto il globo. Purtroppo, di queste minacce si parla poco e ancor meno si approntano misure atte alla riduzione del rischio di diffusione pandemica di agenti avversi.
Tornando invece all’oggetto di questo scritto, si riscontra sempre più spesso l’accusa ai fitofarmaci di essere la causa prevalente delle oggettive difficoltà in cui versano le api. In particolare, tali accuse sono rivolte agli insetticidi neonicotinoidi, pur toccando anche altre classi chimiche ad effetto insetticida, oltre a diserbanti, acaricidi ecc. Riprova di ciò è l’incalzante, permanente e continua diffusione su reti tv, radio o sul web, di spot di chiara e netta accusa generica verso il “chimico”. Pubblicità che tutti, almeno una volta, abbiamo potuto riscontrare. Preso atto che i prodotti nati con lo scopo di uccidere insetti (insetticidi) per loro natura e scopo non possono essere altro che possibile causa di morte delle api, ma anche di tante altre specie ed entità entomatiche e biologiche in genere, il mio pensiero diverge nettamente quando si imputano a questi prodotti tutte le disgrazie che colpiscono le api. La risposta è semplice: no, questo non è assolutamente vero e per dimostrarlo procederò con alcune esemplificazioni tanto inequivocabili quanto riscontrabili.
Le api muoiono anche per i trattamenti insetticidi. A seconda del fitofarmaco utilizzato e del modo in cui viene impiegato, si ha un impatto minore o maggiore, ma sempre si hanno conseguenze negative. In generale si può quindi affermare che questo dipende dal prodotto impiegato, talvolta in violazione alle indicazioni presenti nelle etichette dei prodotti stessi. Indicazioni che invece dovrebbero sempre essere rispettate rigorosamente sia dagli agricoltori sia dai contoterzisti. Aggiungo poi che in alcuni casi l’effetto è maggiormente temibile perché subdolo nel suo manifestarsi, in altri è invece più immediato e palese. A seconda delle matrici prelevate dall’ambiente, si possono infatti avere effetti diversi e più o meno gravi: acqua, polline, propoli, nettare, melata, per loro natura sono elementi che intercettano in modo differente gli inquinanti ambientali, con varie conseguenze sulle famiglie di api.
Questa complicità ambientale è una delle maggiori fragilità dell’ape. Si tenga conto che quando si parla di inquinanti non ci si riferisce solo a quelli usati in agricoltura, ma anche a sostanze derivanti da cicli industriali e dalla vita quotidiana di ognuno di noi, inconsapevoli complici nel mettere a rischio la vita dell’insetto. Pozze d’acqua possono venire inquinate da olii, disinfettanti, detergenti, diluenti utilizzati in pratiche usuali, ma che per le api, nel momento in cui vanno a contatto o vengono ingerite, diventano più o meno letali; oppure resine sintetiche confuse con la propoli, o ancora la propoli stessa che per sua natura invischia e capta corpuscoli atmosferici tossici, ecc.
(Fonte foto: Mario Colombo)
Quando invece si parla di inquinamento ambientale, sensu lato, dobbiamo tenere conto anche di quei cambiamenti rispetto all’assetto originale di un territorio, imposti dall’uomo, per le proprie comodità e necessità: nuove strade e autostrade, urbanizzazione, distruzione di aree verdi ecc. Oppure nell’ambito agricolo: le monocolture con fioriture anemofile e non nettarifere, gli avvicendamenti con piante sfalciate prima della fioritura, varietà di nuova costituzione che in origine erano nettarifere e poi con la selezione non lo sono più, oppure piante arboree che con la potatura riducono e azzerano il potenziale nettarifero e pollinifero, al pari del taglio a raso di parti di selva a cui possiamo aggiungere scelte scellerate come quelle di escludere specie considerate alloctone, quindi da eradicare, benché presenti da centinaia di anni.
Caso emblematico la robinia (Robinia pseudoacacia), leguminosa che pecca sì, ma di generosità: fiori profumati, eduli, nettariferi e ornamentali, legno forte per opera e per il fuoco, radici possenti e infine, come leguminosa, in grado di arricchire i terreni. Oggi la robinia è soggetta a estirpazione su larga scala. Quindi è ineludibile che queste situazioni, come altre non citate per motivi di sintesi, siano punti di grande fragilità per la sopravvivenza delle api e comunque causa di indebolimento organico delle famiglie.
Oltre ai fattori esogeni sopra citati per completezza d’informazione, ma mai considerati da coloro che accusano unicamente i fitofarmaci delle stragi apistiche, ci sono anche diversi fattori endogeni, ovvero quelli derivanti dal rapporto api-allevatori. È fuor di dubbio che negli ultimi trent’anni la gestione apistica sia cambiata radicalmente. Banalmente in conseguenza dell’avvento della Varroa: arnie con rete e lamierino mobile sul fondo, a 12, poi a 10, ora perfino a 8 telaini, oppure arnie “top-bar”, ecc.… Sono cambiate anche le strutture delle arnie, a volte radicalmente. Si pensi a quell’arnia particolare da cui si emungerebbe direttamente il miele (vero o non vero, chissà?) o altre che vengono promosse come arnie urbane, da terrazzo, per famiglia (umana). Le arnie B-BOX da posizionare sui terrazzi e dalle quali, periodicamente, è possibile togliere dei piccoli telaini pieni di miele. Peccato che tali strutture nulla più abbiano dell’arnia tradizionale, la Dadant Blatt, e altrettanto distanti siano dai nidi naturali.
È cambiata anche - e di netto - la gestione. Pensiamo ai nutrimenti a supporto della famiglia. Un tempo venivano utilizzati semplicemente acqua e zucchero per stimolare la deposizione delle uova da parte della regina a fine inverno, oppure per somministrare insieme allo sciroppo farmaci antibiotici (sic!). Sciroppi leggermente tiepidi in modo che con il calore le api operaie trovassero ristoro e facessero i primi voli purificatori. Poi, però, incontrando il freddo esterno non riuscivano più a tornare all’alveare, morendo lontano da esso e portando l’agente infettante lontano dalla famiglia, evitando così ulteriori contaminazioni. Si trattava quindi solo della nutrizione come supporto alle famiglie, nient’altro. Oggi la somministrazione di sciroppi industriali, casalinghi, oppure canditi fatti con varie formule è divenuta invece cosa quotidiana e spalmata durante tutto l’arco dell’anno, a volte anche in presenza dei melari, andando contro ogni criterio di rispetto per le api e anche per i consumatori.
Purtroppo, la pratica della nutrizione accessoria viene impiegata spesso in modo eccessivo, ridondante e non sempre in buonafede. Certo lo scopo non è più quello di sostenere le api in momenti specifici, ma di sfruttarle maggiormente. Il miele proveniente dal nettare dei fiori non è più scorta per le api, ma viene sottratto per la commercializzazione, mentre le scorte invernali di miele provengono dal prelievo di sciroppi dai nutritori, scorte che ovviamente non corrispondono a quelle “naturali”, provenendo da un surrogato del nettare avente ben altre caratteristiche nutrizionali. Questo modo di gestire le colonie è tutt’altro che d’aiuto per le api.
Fra le insidie determinate da un eccesso di zelo degli apicoltori, ce n’è una imperdonabile e fortemente deleteria, in quanto subdola e non palpabile. Nella fattispecie mi riferisco all’ibridare ecotipi locali con altri di provenienza remota e/o ignota. Non mi riferisco ad api regine prodotte da allevatori italiani certificati, ma ad api regine provenienti da Paesi lontani o lontanissimi. Forse non tutti sanno che è nell’ordine di migliaia di individui il numero di regine importate ogni anno. Migliaia! La confusione genetica che comporta questa scelta operativa è imprevedibile. Potrebbe essere che in alcuni casi si abbia un beneficio temporaneo, ma ho ragione di credere che prevalentemente se ne ricavino danni permanenti.
Fortunatamente, anche in tempi recentissimi alcuni validi ricercatori (non sempre condivisi da altri, ma da me sostenuti) hanno pensato di dare valore agli ecotipi locali, consolidati nei propri ecosistemi, dove la genetica e l’epigenetica si fondono e si modellano nel tempo per conformarsi in base alle condizioni vegetazionali e climatiche locali. Non dobbiamo infatti dimenticare che l’etologia dell’ape, conseguentemente alle sue caratteristiche biologiche, è estremamente fragile e soggetta ad elementi interni alla famiglia, ma anche esterni. Questo è quindi l’ennesimo gravissimo atto di disturbo e di danno per i nostri insetti.
Un cenno meritano poi altre criticità e interferenze che quantomeno provocano caos nell’interazione degli individui della famiglia e che ignorano il principio del Superorganismo Alveare: per esempio gli scambio di favi con covata e api adulte da alveare ad alveare, il cosiddetto “bilanciamento” delle famiglie; la sciamatura pilotata; il nomadismo spinto agli estremi; l’ingabbiamento della regina; i molteplici trattamenti acaricidi; la presenza permanente della Varroa; ecc. Sono tutti fattori che presi singolarmente appaiono relativamente preoccupanti, ma nel loro insieme hanno un impatto negativo esponenziale.
Ogni intromissione dell’apicoltore viene “assorbita” o risulta irrilevante ai fini dell’impatto sui comportamenti delle singole api, ma se sommati uno all’altro esaltano le fragilità del sistema sociale, anche fino alle estreme conseguenze. Tali negatività, esogene ed endogene, determinano una grave influenza che incide in modo esponenziale sull’etologia, la resilienza, la capacità di sopravvivenza dei nostri insetti. Non è quindi difficile capire e condividere a quale pressione negativa siano soggette le api. Qui mi fermo: come scritto all’inizio di questo mio pensiero, nella mia attività di ricercatore, se da un lato mi sono occupato prevalentemente della protezione delle api, dall’altro ho cercato di aiutare gli agricoltori individuando strumenti, nell’ambito del biologico e dell’integrato, che permettessero di proteggere le colture, determinando il minore impatto ambientale possibile.
La domanda che sorge spontanea è quindi questa: perché additare unicamente i fitofarmaci come causa delle proprie disgrazie e di quelle delle api? Ritengo infatti che solo un’analisi olistica, oggettiva e serena di tali complessi scenari possa portare nel tempo alla soluzione di problemi tanto gravi. La collaborazione fra allevatori e agricoltori, avendo come tramite la ricerca, è perciò l’unico modo per trovare e fornire gli strumenti adatti per far sì che l’agricoltore possa ottenere le produzioni che gli consentono di vivere e di sfamare le popolazioni e che gli apicoltori possano, anche adottando loro stessi comportamenti più corretti, salvaguardare i propri allevamenti.
Non ritengo che spot con sottofondo di musiche funerarie e voci laconiche che invitano ad adottare degli alveari siano il giusto aiuto alle nostre api. E poi, riflessione, vengono adottati gli alveari o gli apicoltori? L’adozione dell’alveare è solo una questione di marketing, non di effettivo aiuto alle api. Così come hi-tech non è sinonimo di soluzione, come si vuole fare credere, di tutti i problemi, anche di quelli per i quali vengono proposte determinate attrezzature. In realtà, non risolvono i problemi nemmeno in parte. L’uso di nuove tecnologie è senz’altro auspicabile, perché in un futuro ci si possa avvalere per prevedere i problemi e favorirne le soluzioni. Ma oggi spacciare certe strumentazioni come risolutive, anche no!
Infine, per ricongiungere apicoltori e agricoltori, devono oggi essere loro i primi a compiere un atto di rispetto e attenzione, avviando un dialogo per dare forza alla ricerca affinché il nostro mondo sia green nei fatti, nel rispetto reciproco, per tutte le specie che popolano il globo e che non si riduca tutto a qualche vacuo slogan".
Mario Colombo, già professore di Entomologia presso l'Università degli Studi di Milano
24 febbraio 2021
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Fonte: Agronotizie