La sostenibilità in agricoltura e diventata negli ultimi tempi la parola d'ordine che domina dibattiti tecnici e politici, inserendosi con forza sia nelle scelte colturali che in quelle olitiche a livello nazionale ed europeo. Ma un'agricoltura sostenibile è effettivamente realizzabile? E in che misura?

È questa la domanda a cui si e cercato di dare risposta nel corso della tavola rotonda sul tema “Sostenibilità dell'agroalimentare: alla ricerca di un mix ottimale tra sussidi e mercato”, organizzata a Roma da Inea e dalla Fondazione Simone Cesaretti, alla quale hanno partecipato il professor Francesco Maragon dell’Università degli studi di Udine, il professor Augusto Marinelli dell’Università degli studi di Firenze e vice presidente della Fondazione; Felice Assenza, direttore generale Dg generale Politiche internazionali e dell’Unione europea; Vanessa Ranieri, presidente WWF Lazio, il professor Alberto Manelli; direttore generale Inea; il professor Silvio Menghini, Università degli Studi di Firenze; Marco Berardo Di Stefano, presidente Rete delle Fattorie Sociali e Ferdinando Secchi, referente Libera Lazio.

L'idea di uno sviluppo sostenibile e relativamente nuova, nata intorno agli anni '50 e cresciuta nel corso della crisi energetica degli anni '70. In agricoltura il concetto di sostenibilità si fonde peraltro con molti altri leit motiv quali quelli della qualità e della salubrità, nonché quella di una funzione sociale dell'attivita agricola intrapresa da diverse attori che operano nel settore.

Il ruolo strategico del sistema agroalimentare
Al sistema agroalimentare è ormai ampiamente riconosciuto un ruolo strategico per il benessere collettivo garantendo, oltre la produzione di beni alimentari e non, importanti output sociali ed ambientali. Nonostante il plauso pressoché generale del grande pubblico, nel quotidiano delle imprese che fanno della sostenibilità il loro faro guida rimane il problema economico: seguendo i normali approcci al mercato, infatti, non è possibile mantenere costi e prezzi a livello di competitività.
Se da un lato la soluzione ideale rimane quella dell'intervento pubblico, il settore deve organizzarsi in vista della già annunciata diminuzione dei fondi legata alla volontà politica di limitare gli aiuti sia per evitare distorsioni della concorrenza, come auspicato in sede internazionale, sia per tenere conto di vincoli di bilancio sempre più stringenti, effetto anche di una continua riduzione di risorse disponibili.

Il problema dei fondi
Prendendo le mosse dalla relazione introduttiva di Francesco Marangon, il nutrito gruppo di partecipanti ha delineato un quadro di un settore dell’agricoltura che supera con decisione i luoghi comuni di un comparto primario ricalcato su irreali pubblicità dominate da mulini e mucche violacee o percepito come strumento per “mungere” la ricca vacca Europea.
Nella realtà siamo di fronte a una realtà complessa, che sta da tempo registrando un graduale ma inesorabile passaggio da una concezione industriale dell’attività agricola nata dopo la green revolution, a un modello economico e strutturale che affianca alla monocoltura e alle commodities americane, australiane o nordeuropee, la vocazione italiana a puntare anche su elementi spuri, tra i quali la diversificazione delle attività agricole e la loro capacità di creare un valore aggiunto di servizi che non riguardano esclusivamente la tutela del territorio, dell’ambiente e della biodiversità – elementi peraltro già premiati dalla nuova Pac -  ma comprendono una serie di funzioni sociali assai più difficili da valutare e monetizzare.


Alberto Manelli, direttore generale Inea

Tra le soluzioni proposte per l’inpasse che riguarda la remunerazione dei servizi ambientali, la più condivisa può essere sintetizzata in poche parole: utilizzare nei prossimi anni una parte dei sussidi per sviluppare i cosiddetti Pes (Payment for Ecosystem Services). In sostanza si tratta di creare un mercato che dovrà prima affiancancare la pubblica amministrazione nel pagamento di questi servizi, per poi di fatto sostituirla nel momento in cui si dovessero chiudere definitivamente i rubinetti che portano denaro dall’Europa.
La pubblica amministrazione, da parte sua, rimarrebbe allora nella filiera con un ruolo prevalentemente di agente certificatore, mentre i servizi sarebbero pagati più o meno integralmente dai fruitori. Già oggi si dà il caso di un produttore di acque minerali che paga gli agricoltori della zona affinché non utilizzino fitofarmaci sintetici e salvaguardino così la qualità dell’acqua alla sorgente. 

La funzione sociale dell'agricoltura
Discorso diverso, e senz’altro più difficile, è quello dell’agricoltura che fornisce servizi orientati al sociale. Questo genere di attività non gode di nessun sussidio e, forse proprio per l’assoluta necessità di confrontarsi solo con i mercati, ha sviluppato modelli di successo, come quello delle Fattorie Sociali. Anche in questo caso, tuttavia, dovrebbe essere applicato il principio del reddito sintetizzato dalle parole di Alberto Manelli: “Fare profitti in agricoltura è giusto: senza profitti non esiste impresa. Se si tolgono i sussidi e si lascia solo il mercato, bisogna dargli regole precise, ferree e ineludibili”.

La funzione sociale delle aziende agricole dovrebbe dunque essere remunerata al pari di quella ambientale e, paradossalmente, il calcolo del valore di questa funzione è più semplice da calcolare rispetto all’altro: al di la del valore etico dell’attività, sarebbe sufficiente valutare il risparmio per le PA e sommarlo al rientro economico derivato dalle imposte pagate da chi sino a ieri era per la comunità solo una voce di costo.

In entrambi i casi, comunque, sarà necessario trovare qualcuno intenzionato a pagare non per maggiore quantità o qualità, ma per motivi legati alla propria consapevolezza di cittadino del mondo. In pratica si dovrà creare un mercato tutto nuovo di consumatori consapevoli ed eticamente impegnati; il che, se già era difficile nei periodi di vacche grasse, in tempo di crisi ci appare come il cercare di spiccare il volo sbattendo velocemente le braccia. Piuttosto difficile a prescindere da quanta volontà e impegno si impieghi.