Questa la sensazione provata oggi a un incontro organizzato da Valagro a Milano. Moderatore Stefano Righi, del Corriere della Sera, mentre sul palco si alternavano alla parola personaggi come Pierdomenico Perata, Rettore della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, Claudio Giorgione, Curatore di "Leonardo Arte & Scienza" presso il museo della Scienza di Milano, Fiorenzo Galli, direttore del museo stesso e Giuseppe Natale, amministratore delegato di Valagro.
Stampa, imprenditoria privata, ricerca universitaria e cultura museale in un unico luogo, disquisendo sui mali e sui pregi dell'Italia rispetto al resto del mondo. Peccato che molti siano apparsi i mali e davvero pochi i pregi. Almeno, nella mia personalissima sintesi.
E infatti si scopre che a livello universitario in Italia vi è solo il 4,3% di ricercatori stranieri, contro il 34,3% della Francia e il 41,4% degli inglesi. In Usa la presenza di ricercatori stranieri è aumentata del 50%. Forse anche grazie a tutti i cervelli in fuga dallo Stivale.
Nel Belpaese, evidentemente, non viene incentivata la ricerca di cervelli stranieri, a cui vengono dati ben pochi motivi per venire in Italia a lavorare, anche grazie a normative che li parificano all'immigrato tout-court. Intanto, i nostri ricercatori vanno all'Estero a riempire università straniere.
Uno scenario desolante quindi, sia per chi lo guarda dall'interno, sia per chi guarda l'Italia dall'esterno e la voglia di investire certamente gli scappa.
Un altro sasso viene lanciato da Fiorenzo Galli, il quale ricorda poi come fino alla prima parte del XX secolo la mole delle informazioni raddoppiasse ogni 100 anni, mentre oggi raddoppia ogni due, creando difficoltà su più livelli. Una moltitudine di dati e nozioni che a quanto pare la società moderna fatica a metabolizzare.
In tali caotici scenari trova quindi una spiegazione la proliferazione dei troppi cultori di pseudo-scienze e "bufalari" di professione, i quali possono facilmente approfittare della sovraesposizione mediatica per fare divulgazione farlocca e tirare l'acqua a mulini ideologici o interessi personali che con scienza e tecnologia (quella vera) hanno davvero poco a che spartire.
Troppa informazione fa cattiva informazione. E per un divulgatore serio e preparato, vi sono cento "cazzari" che sparano stupidaggini su ambiente, agricoltura, salute, alimentazione e chi più ne a più ne metta. Una gara che appare quindi persa in partenza, anche perché, come ricorda Pierdomenico Perata, lo scienziato è sempre perdente nel dibattito a causa della propria deontologia che lo porta a mantenersi asettico nei giudizi: in una discussione sugli Ogm, per esempio, l'attivista ambientalista affermerà senza alcun problema che fanno male alla salute e che distruggono l'ambiente. Non mostrerà alcun dubbio, trasmetterà l'idea che ha lui la verità in tasca. Lo scienziato si sentirà invece in dovere di mantenere verso questo tema un atteggiamento obiettivo e razionale. E quindi, nel dibattito pubblico, perde.
Una situazione che viene ben riassunta dal detto lombardo "Chi vùsa pusé la vaca l'è sua", ovvero: chi urla di più (in una disputa sulla proprietà di un bovino disperso) si porta a casa la vacca.
Italia a una marcia: la retro
Italia culla della cultura e dei cervelli di eccellenza. Davvero è così?
Paradosso fra i paradossi, Fiorenzo Galli lamenta come siano ormai 18 mesi che il museo attende i finanziamenti stanziati tempo fa dallo Stato, ma tenuti fermi solo per inghippi burocratici. Nel frattempo il Museo paga gli stipendi attingendo dalle proprie casse, grazie alla remuneratività delle proprie attività e iniziative. Un applauso quindi a una struttura strategica dal punto di vista culturale che si mantiene da sé? Neanche per idea: per questa ragione il museo ha ricevuto una sorta di tirata d'orecchie perché come fondazione non dovrebbe assumere un ruolo così "commerciale".
Quasi che fare business e restare aperti senza gravare sulle tasche del contribuente fosse peccato mortale. Almeno, così pare essere il vento che tira in questa Italia ove il ben dell'intelletto pare ormai alla deriva.
Ma questa è solo una delle tante assurdità del nostro Paese, un Paese che guarda ai finanziamenti privati alla ricerca come ai fatidici "mercanti nel Tempio" di evangelica memoria.
Proprio in tal senso, è opinione di Pierdomenico Perata che il ricercatore dovrebbe ormai essere considerato invece una sorta di imprenditore: deve fare bilancio, pagare stipendi, procurarsi risorse. Ovvero deve crearsi il proprio mercato. Questo perché, oltre al "prodotto formazione", un'università deve fare ricerca di base per la futura innovazione tecnologica a 20 o 30 anni, ma anche ricerca applicata per sfornare innovazioni utilizzabili nella vita di tutti i giorni. Grande errore della politica italiana, secondo Perata, è quello di volersi ingerire nelle scelte di ricerca applicata: lascia insoddisfatte sia le aziende sia i ricercatori universitari.
Il denaro è quindi sprecato: lo Stato dovrebbe finanziare la ricerca di base, mentre sui budget delle aziende dovrebbe essere basata la ricerca applicata.
E mentre Perata parla, la mente va ai criteri di selezione dei ricercatori, ai concorsi, alle cordate, ai "baroni". Quelli cioè che per liberarsene bisogna attendere la loro estinzione biologica, perché finché hanno una stilla di fiato restano sulla poltrona ad amministrare quel potere che a quanto pare in Italia deriva più da dinamiche politiche-clientelari che da una meritocrazia all'americana.
E proprio all'America rivolge un pensiero pure Giuseppe Natale, il quale ricorda che nella sola Regione Abruzzo vi siano più università che in California, che da sola rappresenta un Pil che la posiziona fra le prime dieci Nazioni al mondo. Una dispersione e frammentazione di risorse che lascia basiti e fa volare la mente al vizio mai abbastanza deprecato di moltiplicare poltrone e nuclei di influenza, anziché premiare l'eccellenza.
Forse perché l'eccellenza è rara da trovare, mentre la mediocrità è una delle caratteristiche più comuni che s'incontrino quando si parli di mondo accademico italiano?
Forse, ancora, che la proliferazione di sedie abbia sperperato risorse e creato una sostanziale incapacità di fare ricerca e di selezionare eccellenze?
Forse.
Per lo meno, queste sono opinioni talmente diffuse che magari sarebbe venuto il momento di usare la sega circolare e sfrondare il mondo della ricerca dei suoi rami secchi, rami a differente grado di clientelarismo e nepotismo, decidendoci finalmente a premiare solo i centri d'eccellenza, quelli più produttivi e innovativi che pur in tanto scempio vi sono.
Niente poesia a pancia vuota
Nel frattempo, si stanno affacciando al mondo due miliardi di persone che desiderano avere i medesimi benefici tecnologici del mondo occidentale. Se però tutto il mondo consumasse quanto noi Italiani ci vorrebbero 2,7 pianeti come la Terra per soddisfare tutti.
D'altra parte, se dovessimo provare a sfamare i sette miliardi attuali di Esseri Umani con le tecnologie che utilizzavamo nel 1961 servirebbe l'80% della superficie terrestre, mentre oggi con solo il 38% in qualche modo ce la facciamo, anche se poi vi sono sperequazioni distributive che generano opulenza da un lato e sottonutrizione dall'altro.
Solo l'innovazione potrà quindi permettere all'Umanità di sfamarsi nei prossimi decenni. Un'innovazione che però sembra non trovare grande ospitalità nel nostro Paese. Un Paese ove non solo la ricerca pubblica langue, ma anche quella privata. Quella cioè che dovrebbe nascere da un comparto ove troppa imprenditoria ha preferito investire in sicuri mono-oligopoli, come per esempio in autostrade o in compagnie telefoniche, anziché in ricerca.
E quindi la tavola rotonda finisce, si esce dalla sala. Con l'amara sensazione di essersele ancora raccontate "fra noi", club ristretto di operatori del settore.
Una sorta di terapia di gruppo ove condividere le reciproche frustrazioni e ricordarci quali dovrebbero essere le vie da seguire, consci che difficilmente si verrà ascoltati in un Paese ove il Premier Enrico Letta afferma che grazie al miliardo e mezzo di euro di finanziamenti per l'occupazione ottenuti dall'Europa ora le aziende non hanno più scuse per non assumere. Come se le ragioni delle non-assunzioni fossero annullabili con quel miliardo e mezzo.
E lo sconforto ritorna padrone del cuore e della mente...