Cosa hanno in comune lo spread e gli Ogm? Entrambi, sia pure su piani diversi, sono la cartina di tornasole dell’incapacità della Vecchia Europa di prendere decisioni.
Per carità, abbiamo il senso della misura e ammettiamo che il confronto è un po' forzato; tuttavia, se ci affidiamo al senso della metafora, ci può stare.

Lo spread è diventato ormai la scala Richter del terremoto economico che rischia di travolgere il futuro dell’Unione europea. Tutti ne sono consapevoli, i vertici si susseguono a ritmo serrato, ma di decisioni politiche e scelte strategiche che riescano a mettere in sicurezza l'euro malato e il rischio di un contagio diffuso nemmeno l'ombra.

Venendo a una delle più spinose questioni agricole dell'ultimo decennio, la stessa cosa succede per l’incapacità di decidere se coltivare o meno in Europa le specie geneticamente modificate. Per gli ideologi negazionisti è un tabù e, per spaventare l'opinione pubblica, parlano di attentati all'ambiente e denunciano improbabili 'incesti genetici' come la fragola e il salmone.

Ci sono poi i negazionisti finto-progressisti: all’Italia non conviene coltivare, ma la ricerca deve andare avanti; guai a mettere il lucchetto ai 'cervelli' che resistono alla tentazione della fuga all’estero. Ma se qualche laboratorio si azzarda a portare avanti un progetto di ricerca, apriti cielo; se poi qualche temerario avvia un campo sperimentale, scatta la caccia all'untore.

Sull'altro fronte ci sono i fautori più convinti, i quali ritengono che gli Ogm siano la nuova frontiera per lo sviluppo dell’agricoltura, capace di aumentare la competitività del settore, di rispondere all’esigenza, questa sì mondiale, di dare da mangiare a una popolazione mondiale in forte crescita, come ripete in ogni occasione la Fao. E, a sostegno della loro tesi, ricordano che nel mondo ci sono centinaia di milioni di ettari coltivati a soia e mais, riso e cotone ottenuti da semi geneticamente modificati.

In mezzo, c'è la Vecchia Europa che da decenni palleggia questa patata bollente tra cavilli e regolamenti vari, un reticolo di norme che hanno come unico obiettivo di temporeggiare.
Il motto è: l'importante è non decidere.

Come dimostra la decisione presa nei giorni scorsi dalla Danimarca, presidente di turno dell'Unione europea ormai agli sgoccioli del suo mandato, di gettare la spugna. Bisogna dare atto ai danesi di averci provato seriamente ma, dopo aver tentato con un compromesso di trasferire ai singoli Stati membri l’ultima parola sulle autorizzazioni a coltivare sul proprio territorio piante Ogm, ha dovuto ammettere l’impossibilità per l’Europa di prendere una decisione. Abdicando così ad armonizzare la normativa in un settore, quello dell’agricoltura, dove la capacità degli occhiuti agrimensori degli euro-palazzi erano riusciti in ben altre imprese, come ad esempio definire la lunghezza minima del gambo dei carciofi o trovare un onorevole compromesso sulla curvatura standard del cetriolo.
L’epilogo di questo tentativo è stato scandito dall’ennesima fumata nera dell’ultimo Consiglio dei ministri dell’Ambiente europei di lunedì scorso a Lussemburgo. Al posto della decisione sul compromesso, già in precedenza osteggiato da grandi partner europei come Francia, Germania e Regno Unito, è stato presentato un report sugli sviluppi del dibattito sul dossier Ogm. Di qui la decisione della Danimarca di passare la mano alla prossima presidenza di Cipro.

 

Noi non siamo per partito preso né a favore, né contro la coltivazione degli Ogm, solo consapevoli che la cosa peggiore è non decidere.
Non avere coerenza tra l'ambizione di mettere la ricerca e l'innovazione al centro delle nuove sfide del modello agricolo europeo, con tanto di budget (oltre 4 miliardi sui cosiddetti Psi), salvo poi bloccare con ostruzionismi regolamentari lo sviluppo di pratiche che nell'agricoltura mondiale sono da decenni una realtà consolidata.

E poi, non bisogna dimenticare gli effetti paradossali che tale situazione crea sui mercati: con una mano si vieta la coltivazione, mentre con l'altra si autorizza la regolare vendita al consumo di prodotti provenienti da materie prime geneticamente modificate, quasi sempre importati da Paesi extra-Ue. Basta scriverlo in etichetta, anzi fino a una certa soglia di ingredienti Ogm, non c'è nemmeno questo vincolo.

C'è il caso emblematico della soia, la cui produzione in Europa copre solo il 20% del fabbisogno. E le stesse mucche che alimentano con il loro latte le fiorenti filiere dei più blasonati formaggi made in Italy resterebbero a dieta senza le massicce importazioni regolarmente provenienti da coltivazioni Ogm.

Lunga vita agli Ogm, ma mai nel mio orticello.