Viene da lontano la crisi della suinicoltura italiana. E dura da tempo, troppo tempo. Eppure avrebbe tutte le carte in regola per essere immune dalle turbolenze di mercato. Tutta (o quasi) imperniata sulla produzione del suino pesante (130-160 chili e oltre) da destinare alla produzione di prosciutti e insaccati di qualità (in prevalenza del circuito Dop), la nostra suinicoltura può vantare caratteristiche che non si riscontrano in nessuna altra parte. Né in Europa e forse nel mondo. Una tipicità costosa da realizzare e che dovrebbe essere premiata con il prezzo. Ma non è così. Nel nostro Paese sono allevati 9 milioni di suini, che non bastano però a soddisfare le esigenze del consumo, specie di carne. Finiamo così per importare quantità considerevoli di carni, ma anche di cosci da trasformare in prosciutti. I dati diffusi da Anas lo scorso anno dicono che a fronte dei 26 milioni di cosci prodotti in Italia ne abbiamo importati 55 milioni. Come dire che ogni tre prosciutti, solo uno è nato in Italia da suini pesanti. Gli altri sono “prosciuttini” ottenuti da suini leggeri e meno costosi da allevare e di prezzo più basso. Certo non del circuito Dop, ma spesso “naturalizzati” e ritenuti italiani da chi li acquista.

 

I “numeri”

Ecco uno dei motivi, ma non l'unico, della crisi che strangola la nostra suinicoltura, costretta a spendere molto per allevare suini pesanti, ma pagata come se sfornasse solo suini leggeri. Meglio allora, sostengono alcuni, trasformare i nostri allevamenti e puntare sul suino da carne da macellare ad 80 o 90 chili, come fanno in Germania, o in Belgio o in Francia o negli altri paesi grandi produttori di suini dai quali importiamo carni per quasi un milione di tonnellate. Facile a dirsi, ma perderemmo la tipicità dei nostri prosciutti e dei nostri insaccati che valgono, come si legge da una recente indagine del Crefis, 7,36 miliardi di euro, dei quali circa uno realizzato attraverso l'export.

Per affrontare le difficoltà del settore è stato istituito presso il Mipaaf un tavolo di crisi, poi ha preso corpo il Cun (Commissione unica nazionale per i suini da macello) che avrebbe dovuto risolvere le distorsioni nella formulazione del prezzo di mercato.  Iniziative lodevoli, ma di scarsa efficacia.

 

Si apre lo stoccaggio

Poi è arrivata la diossina (in Germania), i consumi in quel Paese sono crollati e con loro i prezzi. E la crisi della suinicoltura da italiana è diventata europea. L'Italia, evidentemente, non è riuscita a farsi ascoltare da Bruxelles, ma la Germania sì, che con i suoi 27 milioni di suini è il paese della Ue con il più alto patrimonio suinicolo, seguita da Spagna (23,4 milioni), Polonia (18,5 milioni) e Francia (14,2 milioni). Al Consiglio dei ministri agricoli della Ue che si è tenuto il 24 gennaio la crisi della suinicoltura è divenuta argomento centrale delle discussioni. Si è così deciso di accogliere una proposta avanzata dal Belgio per la riapertura delle misure per lo stoccaggio privato delle carni. Come per gli altri settori in crisi (il latte fra questi),  si è poi decisa l'istituzione di un gruppo di lavoro incaricato di studiare le misure a medio termine per favorire la ripresa del settore, come le innovazioni per aumentare l'efficienza degli allevamenti e la promozione dei consumi.

 

La posizione italiana

Il ministro Giancarlo Galan si è detto favorevole alle proposte del Belgio che peraltro hanno riscosso l'unanimità da parte dei membri del Consiglio. Ma la crisi, almeno per la suinicoltura italiana, non può dirsi conclusa pur con questi aiuti della Ue. Ne sono convinti anche in Confagricoltura che all'indirizzo del ministero ha mandato una serie di richieste che vanno dalla programmazione della produzione (ci sono troppi prosciutti, specie anonimi) ad un più facile accesso al credito, passando da una migliore organizzazione dell'offerta ad una diversificazione produttiva. “Occorre -  a detta del presidente di Confagricoltura, Federico Vecchioni - una riorganizzazione produttiva che le altre suinicolture europee hanno già avviato.” La richiesta di una nuova e più efficace politica a favore del settore suinicolo arriva anche dalla Cia che all'indomani delle decisioni prese a Bruxelles invoca la rapida convocazione del tavolo di filiera per trovare risposte alle difficoltà del mondo suinicolo.

Ben vengano i “tavoli”, ma perché abbiamo dovuto attendere che fosse il Belgio a chiedere aiuto per i propri suinicoltori? Eppure in Italia gli allevamenti sono in difficoltà da anni e in condizioni non meno difficili dei colleghi del Nord Europa. A Bruxelles non ci ascoltano, si dice. O siamo noi a non parlare? Chissà.