La comparazione fra un digestore anaerobico e l'apparato digerente di un ruminante è un luogo comune nel quale incappano molti venditori di impianti di biogas e generalmente i profani in materia.
Nel presente articolo spiegheremo perché un digestore anaerobico non si può comparare con un intestino animale e dunque perché il primo richiede tempi di digestione decine di volte più lunghi rispetto al secondo.

In realtà l'unica cosa che accomuna l'apparato digerente di un animale con un digestore anaerobico è il concetto di digestione, cioè: il processo chimico di demolizione delle sostanze complesse - carboidrati, proteine, grassi - in sostanze semplici, in ultima istanza CO2, CH4, acqua, nitrati e fosfati. E tale similitudine finisce lì però.
In pratica si tratta di due processi decisamente diversi. Nel caso dell'apparato digerente di un ruminante, esiste un primo stadio di demolizione della cellulosa in zuccheri e acidi grassi a catena corta, in particolare acido propionico, che sono le sostanze di cui l'animale ha bisogno per nutrirsi. Tale prima fase digestiva si chiama ruminazione, nella quale operano sinergicamente i microorganismi presenti nel rumine, gli acidi gastrici secreti dallo stomaco e gli enzimi salivari prodotti durante la masticazione. Si tratta di un processo semi-anaerobico, in quanto lo stomaco dell'animale riceve una certa quantità di aria ogni volta che il bolo ruminale viene inghiottito.

Gli stadi successivi della digestione avvengono nell'intestino e sono processi enzimatici, svolti grazie ai succhi prodotti dal fegato e dal pancreas, nei quali la cooperazione dei microorganismi è marginale e la produzione di metano è una reazione collaterale che non riporta alcun beneficio all'animale. Gli enzimi sono prodotti dall'animale stesso, e l'energia necessaria per la loro sintesi è, in ultima istanza, risultante da un processo aerobico: la respirazione.

L'efficienza di degradazione della materia organica di un ruminante è senza dubbio elevata, ma mai raggiunge il 100%, per le seguenti ragioni: perché parte dei nutrienti contenuti nella razione vanno ad accrescere la biomassa batterica e in seconda battuta perché i foraggi hanno sempre una frazione di materia non assimilabile. Le deiezioni, una volta espulse dall'animale, vengono ulteriormente degradate da organismi saprofiti vari presenti nell'ambiente, quali: batteri, archaea, lieviti, funghi, ecc.

Nel caso di un digestore, il processo è ben diverso: la materia organica in ingresso viene demolita dagli enzimi prodotti da un ecosistema di batteri, e i prodotti finali sono acqua, CO2, CH4, SH2, NH3 e digestato. Quest'ultimo contiene parte della biomassa batterica creatasi durante il processo e le sostanze indigeribili, quali ad esempio la lignina dei vegetali.

Diversi lettori hanno interpellato l'autore in merito ad un articolo pubblicato sul Messaggero Veneto, edizione di Udine in data 20/05/2017 con il seguente titolo dal sapore campanilistico: "L'energia viene dal letame: Mereto è all'avanguardia".
Secondo il quotidiano, la ricerca scientifica locale avrebbe sviluppato un sistema di digestione anaerobica innovativo, che funziona come l'intestino di un animale.

Ma la notizia è credibile o si tratta delle solite esagerazioni dei venditori di impianti di digestione anaerobica, magari condite con un po' di sensazionalismo? Invitiamo le nostre lettrici e lettori a trovare la risposta da soli seguendo il metodo cartesiano, dimostratosi utile in altri articoli dello stesso autore per smontare molte delle dicerie che circolano nel folklore del biogas italiano (si vedano ad esempio i seguenti articoli: La conducibilità elettrica del digestato è inaffidabile per la gestione dell'impianto di biogas, Lo schiumometro per gli impianti di biogas, Ridimensionando l’importanza del test Fos/Tac).

La prima cosa da valutare quando si analizza se una affermazione è verosimile o no, è l'autorevolezza scientifica della fonte: l'articolo non è pubblicato da un giornale "peer reviewed", bensì da una testata giornalistica generica, e dallo stesso testo si desume che la ipotetica "ricerca" non è stata svolta da una università o ente scientifico, bensì da due startup insediate rispettivamente nell'Area science park di Trieste e nell'Incubatore Fvg.

Volendo approfondire sulle startup, troviamo che queste non hanno nemmeno una pagina web propria. Questo non fa altro che rafforzare il dubbio cartesiano sulla veridicità delle informazioni contenute nell'articolo, per cui il secondo passo è analizzare le informazioni di cui si dispone, un po' scarne in verità, ma sufficienti per poter trarre conclusioni attendibili.
 
  • Descrizione del processo. Anche se non descritto in modo tecnico, l'articolo riporta che il processo di digestione si basa su una triturazione spinta del letame e sul passaggio dell'omogeneizzato - così ottenuto - attraverso un letto al quale sono fissati i batteri. In realtà, per gli addetti ai lavori, tale sistema non è per niente innovativo, anzi tecnicamente è ben conosciuto come "digestore a letto fluidizzato a biomassa attiva adesa ad un supporto inerte" - in inglese: packed bed reactor - ed è tipificato dalla Norma UNI 10458/2011 come "classe C.3".
    Ad essere obiettivi, esiste molta bibliografia sui packed bed reactors. Si può dire che in genere si tratta di un sistema poco adatto all'operazione sul lungo termine, perché soggetto al fenomeno noto come "bulking": i batteri crescono sul loro supporto, arrivando a formare un vero tappo che impedisce la circolazione del liquido contenente la materia organica da digerire, quindi ogni tanto è necessario svuotare parzialmente il digestore ed eliminare il fango in eccesso. Obiettivamente, i digestori alimentati con trinciato in qualche modo favoriscono l'adesione dei batteri alle fibre vegetali, il cui nucleo di lignina funge in un certo modo da supporto.
  • L'azienda agricola ha 140 capi, 70 in lattazione e 70 in rimonta. Possiamo stimare conservativamente la produzione di letame in circa 4.200 kg al giorno. Da manuale, il contenuto medio di solidi volatili (SV) del letame bovino fresco è del 13% ed il suo Bmp (potenziale metanigeno) va da 0,20 a 0,30 Nm3/kg di SV. Supponendo che non vengano aggiunte altre biomasse, la produzione netta massima di metano di un tale allevamento andrebbe da 109 Nm3/ giorno a 164 Nm3/giorno.
    Secondo la citata Norma UNI 10458/2011, il potere calorifico del metano è pari a 9,94 kWh/Nm3 e, se assumessimo un rendimento medio pari al 38% - abbastanza ottimistico per un cogeneratore di piccola taglia - allora, nell'arco delle 24 ore, risulterebbe una potenza media compresa fra 17 kW e 26 kW. I 20 kW di potenza elettrica dichiarati nell'articolo sono dunque un valore abbastanza in linea con il risultato, praticamente ottenibile con un qualsiasi impianto di biogas correttamente dimensionato per l'allevamento in questione. Pertanto, non è necessaria alcuna tecnologia speciale ed il dimensionamento dell'impianto sembra fatto con dati "da manuale", quindi non ci sarebbe alcuna ricerca specifica per l'azienda agricola friulana. Chiunque potrebbe costruirsi una vasca di cemento, sufficientemente capace, convenientemente isolata e installare un cogeneratore low cost da 20 kW (acquistabili facilmente online) ottenendo gli stessi risultati. Secondo l'International institute for environment and development, in Cina ci sono circa 40 milioni di digestori di taglia comparabile a quella dell'impianto friulano e anche di più piccoli (fonte).
    La Foto 1, tratta dalla stessa fonte, mostra dei contadini cinesi che si autocostruiscono un digestore rudimentale per uso domestico. Tali digestori hanno tempi di digestione di 60 giorni, ed oltre, perché lavorano a temperature basse (10 °C circa) e sono privi di agitazione. Dotandoli di un adeguato sistema di ricircolo e riscaldamento è possibile conseguire prestazioni comparabili a quelle del digestore friulano, come vedremo in seguito.
  • L'articolo segnala che il processo dura 23 giorni: abbastanza normale per la digestione del letame fresco in condizioni mesofile (attorno ai 40 °C). Niente di nuovo dunque sull'efficienza del processo.
  • Altra osservazione critica: l'articolo non riporta il volume dell'impianto, solo l'area occupata dallo stesso: 60 m2. Dalla foto si può stimare l'altezza dei digestori in circa 6 m. Pertanto, il volume di digestione è almeno pari a 150 m3. Il carico organico specifico dell'impianto (il quoziente fra la quantità giornaliera di SV ed il volume di digestione) risulta dunque pari a 4.200 kg di letame/giorno x 13% /150 m3 = 3,64 kg SV/m3·giorno. Tale valore è leggermente alto, ma abbastanza in linea con quello dei digestori anaerobici abituali (tipo Csrt, Continuosly stirred reactor tank, ovvero reattore a vasca con agitazione continua) e con quelli del tipo plug flow (ovvero a flusso di pistone, in genere a forma di salsicciotto e dotati di un asse orizzontale con aspi).
    Dal punto di vista dell'impatto visivo, possiamo concludere che l'impianto appare dimensionato giustamente per la taglia dell'allevamento. Ciò non vuol dire che l'impianto friulano abbia niente di particolare, semplicemente mette in risalto come "l'establishment" dei costruttori di impianti, che si fregiano dello slogan "biogas fatto bene", in realtà non abbia alcun interesse a costruire impianti piccoli, in quanto la loro offerta per impianti di taglia inferiore a 100 kW è sempre imperniata sui soliti digestori da 20 m di diametro coperti con membrane plastiche, indipendentemente dalla potenza dell'impianto.
    L'innovazione delle due startup friulane consisterebbe dunque in una accurata politica di prefabbricazione e un consistente lavoro dell'ufficio acquisti per procurarsi i componenti a prezzi competitivi. Non si tratta di uno sviluppo di tipo biotecnologico o di processo, come invece si pretende di far credere nell'articolo sul Messaggero Veneto.
  • Un'altra affermazione tendenziosa che abbiamo osservato nell'articolo è che l'impianto in questione: "utilizza per il suo funzionamento il 5% dell'energia prodotta" (sic). Orbene, l'autoconsumo di un impianto è dato dai suoi accessori: agitatori, pompe di ricircolo e trituratore in ingresso. Nel punto precedente abbiamo stimato il volume di digestione in circa 150 m3. Poiché il 5% di 20 kW è 1 kW, il quoziente fra la potenza degli agitatori e il volume (in gergo tecnico: Unit power) risulta 1000/150 = 6,66 W/m3, valore assolutamente nella media.
    Ricordiamo che l'agitazione corretta di un digestore richiede una Unit power compresa fra 6 e 8 W/m3. Questa verifica non fa altro che confermare che il volume dell'impianto, che abbiamo estimato per inferenza al quarto punto, sia abbastanza vicino alla realtà, e che il digestore in questione non abbia niente di particolare.
  • Infine, un digestore produce digestato, quindi non è chiaro come l'impianto friulano renda poi compost, a meno che non includa un sistema di compostaggio a valle, fatto non specificato nell'articolo in questione. Il compostaggio consuma energia anziché produrla. Di certo il compost non è migliore del digestato dal punto di vista delle emissioni di gas serra, in quanto l'ossidazione della materia organica produce non solo CO2 ma anche NO2. Quest'ultimo gas è 290 volte più potente del primo, e la sua immissione in atmosfera rappresenta inoltre una perdita di azoto, che sarebbe molto più utile utilizzare agronomicamente.
    Dunque la frase contenuta nell'articolo: "A basso impatto ambientale l'impianto, riduce drasticamente le emissioni nocive (paragonabili al fumo di una sigaretta) e i nitrati del 50%, secondo le prescrizioni degli obiettivi dell'Agenda di Parigi Cop21" (sic!); oltre che sgrammaticata, sembra priva di ogni buon senso. Si può capire che un giornalista non esperto del settore possa incappare in qualche inesattezza quando si parla di argomenti tecnici, ma affermare pubblicamente che un cogeneratore da 20 kW (un motore come una piccola utilitaria) unito a un presunto impianto di compostaggio abbiano emissioni dello stesso ordine di una sigaretta, è assoluta mancanza di senso critico.
 
Foto 1: Digestore "tipo cinese" interrato, quindi a impatto visivo nullo, autocostruito e autogestito da una famiglia contadina.
Il vero "biogas fatto bene" è quello cinese: senza speculazione, senza contributi a carico della società, senza foraggiare le banche, con il minimo consumo di risorse e a "km 0".
(Foto: Xia Zuzhang, 2005)
 

Conclusione

Sono bastati pochi semplici conti per capire che l'articolo in questione tende solo a magnificare prestazioni impiantistiche decisamente nella media, e che il ritrovato della "ricerca friulana" ha in realtà poco di innovazione, e molto di campanilismo provinciale.