L'Italia è il paese degli oltre 340 comitati del no. Di certo, è probabile che alcuni abbiano pienamente ragione, altri parzialmente, altri ancora di ragioni v'è invece da presumere ne abbiamo davvero poche, basando più che altro la propria opposizione su argomentazioni che spaziano dal demagogico al pretestuoso. Fra le molte opere a torto osteggiate nel Belpaese ricadono anche i digestori per la produzione di biogas, accusati ingiustamente di inquinare e di rappresentare rischi sanitari per la popolazione circostante. Accuse che sovente entrano a pieno titolo nel capitolo "bufale" e che sono state affrontate in questo articolo di AgroNotizie.
 
Nei paragrafi a seguire, invece, si approfondiranno gli aspetti positivi delle pratiche di digestione anaerobica delle biomasse e dei materiali di scarto. Perché questi sono numerosi e robusti, apportando benefici sia su scala locale, sia su scala globale.
 

Il carbonio: elemento chiave

La sostanza organica nei campi sta lentamente diminuendo, mentre l'anidride carbonica in atmosfera sta crescendo. Due fenomeni negativi che hanno alcuni legami fra loro e che potrebbero essere mitigati modificando gli attuali rapporti fra agricoltori e cittadini, cioè quelli che rappresentano la maggior parte dei consumatori.
 
La sostanza organica dei terreni altro non è se non ciò che resta dopo la degradazione microbica dei residui colturali e delle eventuali deiezioni animali apportate ai campi. L'anidride carbonica in atmosfera è invece ciò che rimane dopo l'utilizzo dell'energia necessaria a molte attività umane, dai trasporti alle produzioni industriali, dai riscaldamenti delle case all'illuminazione stradale, incluso il consumo di energia dovuto alla navigazione su web di miliardi di persone. Banalmente, anche con la respirazione viene prodotta CO2, da umani, animali e perfino piante, per lo meno durante le ore notturne.
 
L'agricoltura, spesso demonizzata in tale senso, grava su tali bilanci carbonici per due ragioni distinte: la prima è che non riesce a restituire al terreno abbastanza sostanza organica rispetto a quella consumata per produrre cibo. La seconda è che anche le pratiche agricole e zootecniche consumano energia, generando emissioni. A favore però delle pratiche agricole va detto che queste sono le uniche fra quelle umane che oltre a emettere anidride carbonica concorrono pure a sequestrarla.
Le colture agrarie, infatti, assorbono CO2 e lo trasformano in amidi, cellulosa, lignina, grassi e proteine tramite i processi fotosintetici prima e quelli biosintetici poi. Quindi, in estrema sintesi, captano carbonio dall'aria e lo trasformano in sostanza organica utilizzabile come alimento o come fertilizzante. Basti pensare che un ettaro di mais può arrivare ad assorbire dall'atmosfera più anidride carbonica di un ettaro di bosco. Ciò non deve stupire, dato che in quel campo si parte da zero materia vegetale alla semina e si arriva a circa 20 tonnellate di sostanza secca alla raccolta. Il tutto in meno di sei mesi.
 
Oltre una dozzina di queste tonnellate di sostanza secca è peraltro costituita da carbonio, il quale è stato ovviamente estratto dal biossido di carbonio atmosferico. Dato che nella CO2 il carbonio rappresenta solo il 27% del peso molecolare, l'anidride carbonica assorbita da un ettaro di mais si aggira approssimativamente fra le 40 e le 45 tonnellate l'anno.
Tradotto in altri termini, per ogni tonnellata di residuo secco raccolto dai campi, sono state sequestrate dall'aria più di due tonnellate di anidride carbonica. Un processo virtuoso, questo, che può essere ulteriormente esaltato se dopo il passaggio attraverso gli apparati digerenti degli animali da allevamento il carbonio captato dalle piante foraggere viene poi restituito alla terra come fertilizzante organico, ovvero letame o liquami. Poco gradevoli da vedere e odorare, forse, ma altamente preziosi per il terreno.
 
Un passaggio aggiuntivo di grande interesse e utilità è poi quello che prevede la produzione di metano, generando al contempo energia pulita e un digestato organico di alto valore nutrizionale e strutturale per i suoli coltivati. Tale ultimo step è reso possibile dai cosiddetti digestori per il biogas. Questi sono sempre più presenti in Italia, soprattutto nelle regioni zootecniche del Nord, e sfruttano i processi di degradazione microbica della sostanza organica in ambiente anaerobico, cioè in assenza di ossigeno. I batteri che operano questa degradazione sono detti "metanigeni" e come sottoprodotto del proprio metabolismo espellono appunto metano. Questo viene immesso in grandi motori termici che convertono le calorie del metano in elettricità. A seguito di purificazioni successive si può anche ottenere il cosiddetto biometano, utilizzabile tal quale nella rete nazionale del gas in luogo di quello derivato da estrazioni dal sottosuolo. Un'opportunità che però in Italia ancora langue unicamente a causa di lungaggini burocratiche e vuoti normativi.
 
I batteri metanigeni vanno però nutriti. Nei digestori vengono quindi immessi come detto elementi vegetali e scarti di produzione zootecnica e industriale, ma non solo. Per esempio, insieme alle biomasse vegetali, possibilmente in forma di scarti, non quelle utili per la nutrizione animale e umana, possono essere poste le deiezioni degli allevamenti come pure i rifiuti organici delle industrie agroalimentari. Basti pensare alle tonnellate di bucce, torsoli e parti marcescibili che vengono scartate dalle industrie che producono salse o succhi di frutta. Oppure gli scarti dei grandi impianti di lavorazione delle carni o dei formaggi. Nella fabbrica sono rifiuti, nei digestori diventano energia pulita prima e concimi nobili poi.
 
Ciò appare fattibile anche per la frazione umida dei rifiuti solidi urbani. Esempio di ciò, Acea Pinerolese, grande impianto sito in Piemonte ove i rifiuti della città di Torino vengono conferiti, separati e poi avviati a digestione anaerobica per la produzione appunto di biometano e di digestato. Quest'ultimo si presenta praticamente inodoro e igienicamente sicuro dal punto di vista della composizione chimico-fisica e batteriologica.
Non a caso viene prelevato gratuitamente da aziende agricole, vivaisti o semplici cittadini che vogliano utilizzarlo per le proprie coltivazioni, professionali od hobbistiche che esse siano.
 

Dalle campagne alle città e ritorno

Se amplificato come portata e diffusione, tale processo virtuoso permetterebbe di controbilanciare il primo dei due fenomeni sopra descritti, ovvero l'allontanamento dai campi della sostanza organica, destinata a divenire oggi cibo, essere trasportata nelle grandi città e lì "morire" divenendo spazzatura non valorizzata oppure finendo nelle fogne. Fare percorrere a ritroso ai rifiuti e agli scarti organici il medesimo cammino compiuto in forma di alimenti, implicherebbe non solo un grande beneficio per il terreno e per le colture che vi verranno poste a dimora, ma anche migliorerebbe la gestione di scarti agroindustriali e rifiuti organici cittadini. Senza dimenticare che da tale processo si estrae anche energia, o sotto forma di biometano, oppure di elettricità.
Questa sarebbe peraltro una forma di energia più stabile e continuativa di quella offerta da altre fonti rinnovabili, come fotovoltaico ed eolico, perché si baserebbe su processi microbiologici modulabili e standardizzabili nel tempo. Si genererebbe cioè uno di quei tanto auspicati fenomeni di "economia circolare", ove gli scarti di un processo divengono materie prime per il processo successivo.
 
Inoltre, da parte dell'agricoltura calerebbe l'impiego di fertilizzanti inorganici, spesso di sintesi come alcuni concimi azotati. Prodotti che richiedono molta energia per la loro manifattura. Per realizzare una tonnellata di urea, per esempio, servono circa quattro barili di greggio. I concimi fosfatici, invece, provengono soprattutto da giacimenti nordafricani e richiedono grandi quantità di energia per essere estratti, trasportati e infine lavorati. Tutti consumi energetici che gravano sull'impronta carbonica dell'agricoltura a livello globale.

Se invece buona parte di questi fertilizzanti venisse rimpiazzata dai digestati post-metanizzazione, si potrebbero tagliare vistosamente tali input chimico-energetici. Ma non solo: anche le immissioni in atmosfera di ammoniaca e altri gas nocivi potrebbero essere tagliate significativamente, come pure la migrazione di nitrati nelle falde.
Infine, l'apporto di digestato ai campi, innalzando la percentuale di sostanza organica del terreno, eserciterebbe anche una preziosa azione di captazione degli agrofarmaci impiegati per difendere le colture, in special modo gli erbicidi. Più sostanza organica c'è nel suolo, infatti, meno molecole migrano verso le acque a seguito di piogge o irrigazioni. La sostanza organica apportata tramite digestati, cioè, mitigherebbe molto l'annoso tema degli "agrofarmaci nelle acque".
 
Una serie di vantaggi, questi, che dovrebbero essere considerati obiettivi prioritari da raggiungere tramite scelte politiche oculate e lungimiranti, accelerando le procedure burocratiche, generando razionali quadri normativi e, perché no, bypassando magari i summenzionati comitati del no, onnipresenti sul territorio nazionale e ormai divenuti sinonimo di paralisi economica, energetica e perfino ambientale.