Un primo punto da chiarire è infatti sulla percezione che viene trasmessa ai cittadini, cioè quella per cui tutto sta peggiorando. Analogamente a quanto accade con i residui sull'ortofrutta, uno dei malvezzi più odiosi è infatti quello di fare passare i miglioramenti delle campagne di monitoraggio quali peggioramenti per la salute e per l'ambiente. Così come sono stati perfezionati nel tempo i metodi per reperire residui sull'ortofrutta, anche in materia di acque sono state ottimizzate le reti di campionamento, come pure le procedure di laboratorio e i metodi analitici. Pure si sono evoluti gli strumenti stessi, sempre più precisi e sensibili. Ciò ha fatto sì che oggi si riescano a trovare molecole anche a tracce omeopatiche, cosa che non era possibile solo 15-20 anni fa. Pure sono aumentati i campioni multiresiduo, esattamente per le medesime ragioni: c'erano anche prima, e pure di più di adesso, ma semplicemente non eravamo in grado di trovarli.
Come sottolineato infatti dallo stesso Ispra, è in atto un continuo perfezionamento delle reti di campionamento, come pure si stanno ottimizzando i metodi analitici. Non di poco conto neppure l'aumento degli investimenti. Le molecole cercate erano 355 nel 2009-2010, scendendo poi a 335 nel biennio 2011-2012 e risalendo a 365 per il 2013-2014. I punti di campionamento sono stati rispettivamente 3.621, 3.500 e 3.747, per un totale di campioni che sono saliti da 21.5765 a 27.995 fino agli ultimi 29.220, con un incremento complessivo pari al 35% in soli sei anni. Pure le analisi si sono moltiplicate, soprattutto fra il biennio 2009-2010 e quello 2011-2012, passando da 932.292 a 1.208.671 (+29,6%), proseguendo poi nel biennio 2013-2014 a quota 1.351.718 (+11,8%). In tutto, le analisi effettuate sono quindi salite in sei anni del 45%.
Non dovrebbe perciò stupire che le molecole reperite alle analisi siano salite dalle 166 del primo report considerato alle 175 di quello intermedio e alle 224 dell'ultimo. Quindi, analogamente a quanto detto per i residui sull'ortofrutta, vanno fatti i complimenti a chi disegna le reti di monitoraggio e i piani di campionamento, come pure a chi effettua le analisi in laboratorio ed elabora poi i dati. Tutt'altro che complimenti vanno invece fatti a coloro che guardano solo i numeri per come paiono a loro e su quelli basano poi le usuali campagne allarmiste.
Già, perché a ben guardare i numeri nell'ultimo report le concentrazioni totali si sono sempre mostrate molto, molto basse. Diffuse a livello territoriale, ma basse in termini assoluti. Basti pensare che, spulciando fra le tabelle riassuntive, non avrebbe mostrato molecole, per ora, il 47,3% delle analisi delle acque superficiali e il 48,9% di quelle sotterranee. Le concentrazioni inferiori a 0,1 µg/L, limite di legge in Europa per le acque potabili, sarebbero state rispettivamente il 70,3 e il 76,5%. Se poi si considerano i valori inferiori al singolo microgrammo si annovera il 93,8% delle acque superficiali e il 92% di quelle sotterranee.
Osservando infine gli sporadici picchi massimi di concentrazioni rilevate, si contabilizzano solo dieci molecole al di sopra dei 5 µg/L nelle acque superficiali e solo sei nelle sotterranee. Per il resto, si registrano dei gran "zeri virgola", perché nella quasi totalità dei casi i campioni hanno mostrato concentrazioni nell'ordine delle frazioni di microgrammo.
Se poi i limiti di Legge venissero fissati per via tossicologica anziché adottare l'anacronistico 0,1 µg/L attuale, si scoprirebbe che la quasi totalità delle molecole trovate nelle acque italiane stallerebbe al di sotto dei propri limiti normativi. Al contrario, stanti così le cose molte di esse si posizionano fuori limite, a volte di decine o centinaia di volte, scatenando paure il più delle volte immotivate.
Applicando infatti le linee guida adottate in alcuni Paesi anglosassoni come l'Australia, per esempio, si scoprirebbe che le acque italiane godono di ottima salute, tranne che per una molecola: il cadusafos. Per questo estere fosforico le formule calcolano infatti un limite nelle acque potabili che è circa un terzo di quello europeo. In altre parole, quel picco massimo di cadusafos riscontrato nel 2014, pari a 13 µg/L, in Australia sarebbe considerato 370 volte sopra il suo limite di Legge contro le 130 volte rispetto al limite del Vecchio Continente.
A dimostrazione che un valore unico di 0,1 µg/L non può essere preso a riferimento quando si abbia a che fare con molecole dal profilo tossicologico quanto mai variabile. Al contrario, il tanto vituperato glifosate godrebbe di un limite nelle acque di circa 10 mila volte superiore a quello nostrano, un valore in linea con quello americano, pari a 700 µg/L.
Visti sotto tale lente, anche i mix di molecole trovati in alcuni campioni, fino a 48 il record, dovrebbero essere guardati con occhio meno allarmato, dato che i margini superiori di sicurezza per le singole sostanze attive sono così alti da assorbire fatalmente gli eventuali effetti additivi dovuti alla contestuale presenza di molecole diverse: dieci o venti sostanze attive presenti insieme in un solo campione dovrebbero destare poche preoccupazioni se ognuna di loro si presenta al di sotto del proprio limite di sicurezza di alcune centinaia o migliaia di volte. E magari tali mix li si trovano anche sporadicamente nel tempo e nello spazio. In tali casi, forse, più che dare addosso alle molecole, imponendo azzardate restrizioni d'uso su scala nazionale, si dovrebbe indagare su come esse siano state impiegate intorno a quegli "hot-spot".
Ciò che purtroppo resta di sconsolante, infatti, è l'attuale politica "riduzionista" che anima il Pan. Quella, tanto per intenderci, che ha ridotto quest'anno all'80% delle superfici gli usi di glifosate, terbutilazina e oxadiazon. Una percentuale che calerà al 70% l'anno prossimo e scenderà addirittura al 50% nel 2018. Perché mentre sono ancora tutti da dimostrare i danni a salute e ambiente derivanti dall'attuale presenza di agrofarmaci nelle acque, sono invece assodati i danni che tali politiche "forbici in mano" stanno facendo all'agricoltura nazionale, cioè quella che dovrebbe produrre sempre più cibi made in Italy, ma che di fatto viene progressivamente disarmata da normative che stanno alla produttività quanto una zavorra sta a una mongolfiera.
Si attende ora il report 2018, sempre tenendo a mente che la comparazione fra report redatti su differenti anni patisce anche delle influenze del clima, non solo delle impostazioni metodologiche evolutesi nel tempo. Infatti, tuonare al peggioramento dei dati alla fine di un anno dove è piovuto a catinelle ha ben poco senso, specialmente confrontando i dati con anni in cui la pioggia si è fatta vedere solo sporadicamente. Perché senza pioggia le molecole si spostano poco. Un fattore, questo, che pare secondario, ma che non lo è affatto.
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Fonte: Agronotizie