A Milano si usa dire “Ofelé fa’ il tò mesté”. Tradotto in italiano, pasticciere fai il tuo mestiere.
Il detto sottolinea l’esigenza di tenere ben separate le professioni, facendo si che a parlare di un settore siano solo le persone che di quel settore son padroni. Purtroppo, questo sano approccio popolare non trova riscontro nella vita odierna ove tutti vogliono parlare di tutto, anche a costo di fare citazioni risibili per impianto concettuale. Nascono così polemiche avvilenti e prive sia di capo sia di coda, in cui l’unica vera vittima risulta essere la verità dei fatti.
 
Già si era trattato della polemica fra Isde, ovvero l’associazione dei medici per l’ambiente, e il mondo degli agrofarmaci (Leggi l’articolo), ma come spesso accade si deve ripercorrere più volte lo stesso filo del discorso.
 
Anche Agrofarma, nella persona del suo presidente Andrea Barella, aveva risposto all’articolo comparso su La Stampa il 27 ottobre scorso dal titolo “Il silenzioso flagello dei pesticidi sull’ambiente“. Dato però che a ogni azione corrisponde una reazione, tocca ora all’Isde replicare a sua volta, per bocca del proprio di presidente, ovvero Roberto Romizi, secondo il quale “[...] l’attuale uso dei pesticidi non può essere equiparato all’impiego delle medicine per l’uomo”, dato che i farmaci umani verrebbero somministrati solo dopo un’attenta diagnosi della patologia e un’attenta  valutazione sul singolo paziente dei loro possibili effetti collaterali. L’impiego di pesticidi invece, sempre secondo Romizi, “[…] non si basa su questo principio ma su considerazioni di carattere meramente economico, ossia sulla convinzione che per produrre raccolti più consistenti si debbano eliminare tutti gli organismi che possono incidere sulle rese. L’uso attuale di pesticidi, dunque, è più simile a un ipotetico caso di somministrazione di antibiotici all’intera collettività umana, supponendo che un tale intervento di massa serva a debellare la progressione di una malattia infettiva a prescindere dai rischi e dagli effetti collaterali che inevitabilmente comporta”.
 
Forse gioverebbe al dibattito accompagnare Romizi in un vigneto attaccato dalla peronospora, oppure da altre patologie fungine. Non male sarebbe nemmeno un frutteto sforacchiato dai lepidotteri o un agrumeto infestato da tripidi. Di certo, pure i nematodi che massacrano le radici delle colture orticole in serra sono tutto tranne che un bello spettacolo. Diventerebbe forse più chiaro al presidente dell’Isde che mentre un medico umano tratta i propri pazienti uno per uno, nel suo ambulatorio, l’agronomo fa lo stesso mestiere, ma lo fa su appezzamenti che di individui ne contano a centinaia o a migliaia. Tutti parimenti “pazienti”, tutti parimenti esposti alla minaccia di un insetto, di un fungo o di una malerba. Anche l’agronomo, checché ne dica Romizi, fa quindi un’attenta valutazione della situazione. Soppesa i fattori climatici grazie all’uso di centraline meteo, rileva le potenzialità infettive con modelli previsionali consolidati, oppure monitora i parassiti con apposite trappole a feromoni. In altre parole, quando prescrive un agrofarmaco a un agricoltore lo fa a ragion veduta e dopo una valutazione puntuale e precisa della situazione sanitaria del campo in questione.

La mancanza di rispetto che Romizi ha mostrato nei confronti del lavoro e della professionalità di agronomi e tecnici è quindi palese e richiederebbe delle scuse ufficiali da parte del medico umano.

Ma tralasciando l’indignazione per delle affermazioni che trasudano disinformazione da tutti i pori, restano ben altri fatti da trattare.
Paragonare gli agrofarmaci agli antibiotici sarebbe di fatto corretto se la frase di Romizi si fosse fermata a metà. In effetti, se un paziente ha 40° di febbre per una polmonite gli si dà un antibiotico e la terapia prosegue per molti giorni proprio per non fare sviluppare fenomeni di resistenza nel patogeno. E proprio la medesima cosa – con buona pace di Romizi - viene effettuata in un campo coltivato, ove i trattamenti sono effettuati solo a fronte di una presenza conclamata della patologia e vengono ripetuti nel tempo fino a esaurimento delle infezioni, magari alternando fra loro le sostanze attive proprio per allontanare rischi di resistenze. Il paragone con la somministrazione a tappeto di un antibiotico a tutta la popolazione, anche a quella sana, è quindi del tutto campato per aria.
Questo è semmai ciò che accade coi vaccini, i quali vanno proprio somministrati ai sani affinché non si ammalino. E se Romizi leggesse quante idiozie si dicono sui  vaccini, forse capirebbe che di gente che parla a sproposito di cose che non padroneggia ce ne sarebbe già abbastanza.
 
L’idea poi che l’uso degli agrofarmaci sia frutto solo di meri calcoli economici, è figlia della solita “misconception” di ciò che l’agricoltura è e di quale sia l’uso dei mezzi di difesa.
I campi coltivati non producono solo reddito, bensì producono innanzitutto cibo. Sfamano cioè le persone dando soddisfazione al terzo bisogno primario dell’Uomo dopo respirare e bere.
Per dare cibo a tutti, i pochi agricoltori rimasti in campagna devono supplire alla mancanza di braccia attraverso l’uso delle macchine, della genetica e della chimica. Se non lo facessero, alcuni milioni di individui salterebbero il pasto. Dare da mangiare a 60 milioni di Italiani non sarà forse nobile come salvare vite di persone malate, magari su questo si può essere d’accordo, ma resta comunque il fatto che tutti, medici e malati inclusi, mangiano. E senza agricoltura non lo potrebbero fare.

I voli pindarici dell’agricoltura senza chimica sono e restano, appunto, pindarici. Si potrebbero paragonare cioè alle frequenti e scellerate affermazioni di chi si è illuso che al posto delle medicine e dei vaccini si possano usare tisane d’erbe o innocue pilloline a base di zucchero. Per qualche personaggio bizzarro, addirittura, per non ammalarsi basta non mangiare carne e se viene qualcosa ci si può comunque curare con limone e peperoncino.
Tutto va bene finché va bene, ovviamente. Poi, quando le cose vanno invece male si deve correre all’ospedale e lì, piaccia o meno, i medici e i chirurghi fanno il loro mestiere, utilizzando anche farmaci registrati presso il Ministero della Salute, esattamente come sono gli agrofarmaci.
La registrazione non rende di per sé sicuri i “pesticidi”? Vero, caro Dottor Romizi. Ma se è solo per questo non rende sicuri nemmeno i farmaci, viste le continue notizie di morti causati da questa o da quella medicina. E queste sono reali, misurabili. Non solo presunte come nel caso degli agrofarmaci.
Veder parlare poi (ancora…) di ddt e di atrazina lascia del tutto basiti. Significa che il mondo per taluni si è letteralmente fermato. Un po’ come quando si sente la gente tuonare contro i farmaci tirando in ballo ancora la talidomide, farmaco che produsse casi di focomelia negli Anni 60.
 
E quando si vuole parlare di numeri, magari, si utilizzino quelli giusti. Perché raffigurare il consumo di pesticidi in aumento basandosi sui dati delle vendite è del tutto inappropriato.
Le tonnellate, checché s’insista a sproloquiare in giro, sono diminuite negli ultimi vent’anni. Sono i fatturati a esser saliti. Le molecole attuali sono infatti molto più raffinate delle precedenti e quindi molto più costose. Ove servivano 4-5 litri di un diserbante oggi ne serve la metà o meno, ma il costo del trattamento è molto più elevato.
Se non ci si crede, si provi a scegliere se farsi regalare un chilo di ferro oppure un grammo d’oro
 
Non resta a questo punto che attendere che, finalmente, il settore agricolo si risvegli dal proprio torpore e risponda a tono a tutti i suoi detrattori improvvisati. Oltre agli interventi di Andrea Barella e di Agrofarma – e di pochi, umili scribacchini tecnico scientifici, categoria cui appartiene il sottoscritto - dove sono le risposte dei responsabili regionali della Lotta Integrata? Dove sono le risposte dell’Ordine degli Agronomi? Dove quelle dei docenti delle Facoltà di Scienze Agrarie di tutta Italia?
Perché il loro silenzio, questo si, sta veramente diventando assordante.