Il grano duro, serbatoio strategico di una delle più blasonate filiere del made in Italy, conosciuto in tutto il mondo, è il cereale per eccellenza dell’agricoltura del Sud, con una significativa presenza nel Centro e in Emilia Romagna. Ma, nella storia recente, è anche il simbolo delle tante contraddizioni del nostro sistema agroalimentare.
Con l’avvento dei premi comunitari disaccoppiati, nonostante la delegazione italiana fosse riuscita a ottenere da Bruxelles un periodo transitorio più favorevole, c’è stata la grande fuga da questa coltura e in pochi anni la produzione si è ridotta sensibilmente: proprio nel 2008, quando la bolla dei prezzi mondiali delle commodity aveva raddoppiato le quotazioni, si era raggiunto il record dei 50 milioni di quintali.
Da qualche anno, a seconda delle campagne, si è scesi su una media al di sotto dei 40 milioni di quintali.
Cala la produzione, corrono le importazioni. Così, gli acquisti dall’estero sono via via cresciuti, fino ad arrivare a coprire tra il 30-35% del fabbisogno dell’industria molitoria e della pasta made in Italy.
Sempre più partite arrivano dal Nord America, Canada e Stati Uniti, ma anche da nuovi fornitori come Australia, Messico e Turchia. Un fenomeno che è stato al centro di furiose polemiche da parte del mondo agricolo, in particolare sull’obbligo di indicare in sull’etichetta della pasta l’origine della materia prima. Anni di battaglia, ma tutto è rimasto sulla carta. E si ciontinua a litigare, mandando in fumo ogni tentativo di realizzare un moderno modello di interprofessione.
L’altra accusa lanciata dalle associazioni agricole all’industria è di quella di rifornirsi all’estero per pagare un prezzo più basso e affossare le quotazioni sul mercato interno.
Un’opinione che però non trova riscontro nella matematica.
Prendendo la media del quinquennio 2006-2010, il prezzo di importazione (Cif) supera quasi sempre il livello dei prezzi interni: 233 euto/tonnellata il prezzo italiano, contro i 241 del Canada, 272 degli Usa e i 300 euro dell’Australia.
Forse non sarà la panacea, ma sicuramente il debutto in borsa del future sul grano duro rappresenta un’opportunità che va quanto meno valutata.
E’ uno strumento più moderno, in linea con i mercati mondiali, che può dare più trasparenza e meno volatilità ai prezzi.
Certo, il mondo agricolo deve sforzarsi di fare quello che anche la nuova Pac chiede e nei convegni sempre si esalta a parole: organizzare l’offerta e competere sui mercati.
Che siano le nuove Organizzazioni dei produttori o le vecchie cooperative e gli stessi rivitalizzati Consorzi agrari, l’importante è competere sul mercato. I francesi già lo fanno: la sfida con i cugini non si gioca solo sul duello champagne-spumante o su chi ha più formaggi Dop. Il futuro dell’agricoltura corre anche sulle commodity, tanto più se in gioco è il grano duro e la sua filiera.