"L’obiettivo del made in Italy è, fra gli altri, quello di comunicare in maniera efficace ai consumatori cinesi e giapponesi gli aspetti della qualità e della tracciabilità dei prodotti agroalimentari. Credo che la missione di alto livello organizzata dall’Unione europea e guidata dal commissario all’Agricoltura Phil Hogan abbia colto nel segno, coniugando un approccio istituzionale e diplomatico ad aspetti più commerciali".

Francesco Paganelli, export manager di Cevico e di Romagna coop food, rete di imprese della quale fanno parte, oltre a Cevico, anche Fruttagel, Co-ind, Deco, Borgobuono, Terremerse e Molino Spadoni, nel corso del viaggio che nella seconda metà di aprile ha toccato Shangai, Pechino e Tokyo.

Un’opportunità per le imprese e le rappresentanze del sistema agroalimentare europeo, in una fase delicata in cui Bruxelles sta cercando di chiudere negoziati di libero scambio sia con la Cina che con il Giappone. Mercati molto diversi fra loro, con esigenze e peculiarità differenti, per quanto per alcuni aspetti comuni, ma pur sempre grandi opportunità per il made in Europe.

"Certo, Cevico è già molto presente sia in Cina che in Giappone" spiega Paganelli. "Siamo il primo esportatore di vino in Cina, con più di 2 milioni di bottiglie vendute nel 2015, e il secondo in Giappone, con 2,5-3 milioni di bottiglie previste nel 2016. Vogliamo espandere la nostra presenza con tutte le aziende di Romagna coop food, considerata la crescita che questo network ad alto tasso di operatività ha avuto negli ultimi tre anni, da quando è stato costituito".

Quali sono stati i risultati più significativi di Romagna coop food?
"L’obiettivo era quello di internazionalizzare maggiormente le aziende del gruppo, la maggior parte delle quali cooperative, tutte fortemente legate al territorio romagnolo. Complessivamente, il fatturato aggregato della rete è di 820 milioni di euro. Ma volevamo crescere sul fronte internazionale e abbiamo puntato a crescere condividendo le esperienze, l’anagrafica dei clienti, il trasferimento del know how nelle missioni. Insomma, un approccio integrato che ha portato ad aumentare nel 2015 il fatturato estero complessivo del 20%, anche se, va detto, il livello di internazionalizzazione è diverso da azienda ad azienda. Cevico, ad esempio, totalizza quasi un 30% del proprio turnover all’estero, altre sono appena partite con l’attività di export e sono a un livello del 5-10%".

Avete dei Paesi target per l’export?
"Inizialmente come rete ci siamo dati dei Paesi-obiettivo sui quali incidere. Poi ci siamo resi conto che si presentavano una serie di opportunità inaspettate e abbiamo modificato l’approccio, per cui stiamo puntando in tutto il mondo, ovunque vi siano opportunità di business".

Qual è, secondo lei, il punto di forza?
"Sono rimasto favorevolmente colpito dalla generosità delle aziende nel condividere le informazioni e nel lavorare per il comune obiettivo dell’internazionalizzazione. Non è così scontato, quanto meno quando si mettono insieme cooperative e mondo privato".

E' rimasto soddisfatto dalla missione in Giappone?
"Sì. E' stato un piacere partecipare a una missione che ha avuto un taglio istituzionale, perché ha dato una visione diversa del mondo. Sono rimasto favorevolmente colpito dalla figura del commissario europeo, Phil Hogan, perché è molto pragmatico, ha un grandissimo rispetto delle indicazioni geografiche e crede molto nella cooperazione, un sistema produttivo che non solo tutela la qualità dei prodotti, ma anche le comunità locali. E nella missione in Cina e Giappone il mondo cooperativo si è dimostrato all’avanguardia, anche per la capacità di dialogo che ha mostrato".

Lei prima ha parlato di tracciabilità ed etichettatura. Come pensate di comunicare il made in Italy in Cina e Giappone?
"Attraverso le certificazioni, che indicano la provenienza del prodotto, come è stato realizzato e con quali criteri. Ma non è facile, perché alcune certificazioni non sono riconosciute".

A cosa si riferisce?
"Ad esempio alla certificazione europea sul biologico. Se questa non costituisce un problema in Giappone, dove peraltro la connotazione di organic è particolarmente ricercata e i consumatori hanno un approccio sereno nei confronti degli enti governativi che certificano i prodotti, in Cina la certificazione biologica europea non è riconosciuta è addirittura vietato per i prodotti biologici varcare i confini nazionali".

Quindi?
"Quindi se vogliamo esportare prodotti biologici, dobbiamo farlo come vino convenzionale e togliere il logo di biologico dall’etichetta. Allo stesso tempo dobbiamo certificare le nostre aziende secondo le richieste della Cina, che però ha dei costi per gli agricoltori e le cantine biologiche, giusto per limitarsi all’area del vino. Parliamo di cifre intorno ai 15mila euro per il primo anno, che dovremo spalmare lungo la filiera".

Quali sono i vostri diretti competitor su questi mercati?
"Sono quelli che hanno la possibilità di accesso a dazio zero. Nel caso del Giappone, ad esempio, il Cile. In Cina paghiamo dazi intorno al 50%, in Giappone del 20%, con il sistema di accise e altre tassazioni si riversa sul prezzo al consumo. L’Australia ha appena concluso un accordo con tassazione zero, la Nuova Zelanda ci sta lavorando, per cui sono spaventato. E' evidente che a parità di prodotto quello europeo o italiano diventa fuori mercato".

Cosa chiedete al commissario Ue?
"Quando Hogan dice che crede nella protezione delle Dop e Igp, nel sistema cooperativo, è perfettamente consapevole di queste problematiche. Sa bene che cosa fare".