Si chiama Serge Latouche e viene definito sia filosofo, sia economista. Nel suo libro “Il tempo della decrescita. Introduzione alla frugalità felice”, edito nel 2011da Eleuthera, Latouche esprime i propri concetti in modo estremamente preciso: ritorno alle campagne, fine dell’agricoltura intensiva e lavoro per tutti. Poveri, ma finalmente felici?
Altri hanno già commentato in modo esaustivo tali posizioni, spiegando perché oggi gli scenari prefigurati dal filosofo-economista francese non starebbero in piedi in senso generale.
In questo, di articolo, si cercherà quindi di contestualizzare il tema proprio qui, in Italia.
 

Un Paese che non c’è più

 
Secondo l’Istat, nei primi Anni 20 vi erano in Italia 13 milioni e 213 mila ettari di soli seminativi. Ad essi si aggiungevano un milione e 640 mila ettari di colture frutticole e sei milioni e 691 mila di coltivazioni foraggere permanenti. La loro somma fornisce una cifra di quasi 22 milioni di ettari coltivati. La popolazione era allora di appena 38 milioni scarsi di abitanti e quella attiva operava in agricoltura in ragione del 54,7 e 58,2% rispettivamente per i maschi e per le femmine. Analogamente, il 25,4% dei maschi e il 23,6 delle femmine lavorava nelle industrie. Solo il 20 e il 18,3% operava nel terziario(1). In altre parole, per ogni operatore agricolo vi era meno di un operatore di altri settori da mantenere con i frutti dei propri campi. Il rapporto fra chi produceva cibo e chi lo consumava era cioè inferiore al fatidico 1:1.
 
Oggi la Sau è scesa sotto i 13 milioni di ettari, mentre la popolazione ha superato i 60 milioni. Case, strade, parcheggi, centri commerciali, insediamenti industriali hanno quindi coperto buona parte di ciò che una volta veniva coltivato. Chi produce cibo, inoltre, non arriva oggi ai quattro milioni di unità inclusa la manodopera straniera e non.
 
Seguendo però il ragionamento di Latouche in tema di “decrescita felice”, tra il 20 e il 30% della popolazione attiva italiana dovrebbe ritornare a lavorare in campagna.
Anche assumendo la via di mezzo, cioè il 25%, appare chiaro che una tale migrazione alla rovescia non è più possibile. In primis perché la popolazione è aumentata in 90 anni di 32 milioni di unità, in secondo luogo le terre disponibili alla coltivazione sono scese di circa nove milioni di ettari, ovvero del 40% circa. Difficile pensare che si possano far stare tutti quegli Italiani in spazi così ridotti.
In più, quelle terre sono oggi occupate da chi è rimasto a coltivarle anziché andare nelle città a cercare fortuna. Questo rende alquanto irrealizzabile lo scenario in cui svariati milioni di cittadini italiani vanno a bussare alla porta degli agricoltori per dire loro: “Fatevi in là, che adesso arriviamo noi!”.
 
Certo, recuperare alcune aree attualmente abbandonate per trasformarle in piccoli orti di tipo familiare è un’idea intelligente. Ma se si pensa che la via d’uscita all’attuale crisi sia quella di mandare milioni di dilettanti a zappare fazzoletti di terra recuperati sotto i cavalcavia, vuol dire che della parola “agricoltura” non si conosce nemmeno il significato.
 
Come ulteriore aggravante, gli scenari previsti dal filosofo francese non prevedono ovviamente le tecnologie attualmente utilizzate dalla moderna agricoltura intensiva. Addio quindi alle sementi iper-produttive delle multinazionali che “brevettano la vita”. Addio anche ai fertilizzanti e agli agrofarmaci che rendono "tossici e insapori i cibi". Addio pure a quei macchinari che (orrore & raccapriccio) al momento attuale svolgono in campagna proprio quel lavoro che le braccia degli Italiani si sono stancati di sopportare da molti decenni. Quali novelli Amish, tutti armati di zappa e forcone e via: verso nuove avventure.
 
Per dare coerenza intellettuale a tale migrazione biblica, la nuova popolazione agricola italiana dovrebbe infatti strappare le malerbe a mano, spargere letame dai carri agricoli e arare arrancando dietro a un bue. Cioè tutte quelle cose da cui sono fuggiti a gambe levate i loro bisnonni. Perché la vita in campagna in quelle condizioni era già allora miserabile, faticosa e dava da mangiare solo qualche risicato carboidrato, per lo più scondito. Alla faccia dei personaggi bizzarri che pensano che si stesse meglio quando si stava peggio.
 
Ma, essendo degli inguaribili burloni, facciamo comunque finta che il processo possa avere comunque luogo: non avendo nuove superfici agrarie da colonizzare - altrimenti la biodiversità andrebbe definitivamente a farsi friggere dovendo abbattere altri boschi e brughiere - i neo-contadini non potrebbero fare altro che operare sugli attuali 13 milioni di ettari, vedendo per giunta precipitare le produzioni di alcune decine di punti percentuali e tornando alle rese per ettaro dei tanto sognati “bei tempi che furono”. Quando cioè da un ettaro di frumento duro si otteneva una decina di quintali per ettaro contro i 40-50 attuali.
Alla fine della gita, coltivando molti meno ettari rispetto al passato e con tecnologie pressoché uguali a quelle dei bisnonni, si produrrebbero forse i due terzi di quanto veniva prodotto negli Anni 20, dovendo però mantenere una popolazione cresciuta nel frattempo dell’85%.
Di sicuro, la popolazione italiana non avrebbe più problemi di colesterolo, né di sovrappeso. Forse ne avrebbe però in termini di carestie ed epidemie. Ma non si può mica avere tutto dalla vita…
 
In considerazione di quanto sopra, non si può che concludere che la tanto strombazzata “decrescita felice” è per taluni un sogno, ma nella realtà si trasformerebbe presto in un incubo.
Se ne ricordino magari quegli ingenui che oggi applaudono come foche in attesa di un’acciuga quando sentono il guru di turno tratteggiare scenari agricoli demenziali, ma dal sapore bucolico. Perché di “buco”, se questi soggetti l’avessero vinta, resterebbe solo quello nello stomaco. 
 
(1) http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerThread.php?threadId=censimento1921