Presentato a Roma il secondo numero di  AgrOsserva, l’Osservatorio Ismea-Unioncamere sulla congiuntura dell’agroalimentare italiano, dal quale emerge il quadro di un’agricoltura sempre più sacrificata nella catena del valore della filiera che nel 2013 ha sofferto in maniera particolare anche per gli effetti del maltempo e del crollo dei consumi interni.

Bilancio 2013
Il 2013 si chiude con una serie sconcertante di elementi negativi. Al maltempo, a un mercato interno in caduta verticale e a un accesso al credito ridotto a uno spiraglio, va aggiunta un’annata di grazia per la Spagna, nostro principale concorrente nell’export, che ha generato un contenimento dei prezzi al consumo.
L’anno scorso sono state quasi 33 mila le aziende agricole che hanno chiuso i battenti in Italia (il 4% in meno sul 2012), con un tasso di mortalità più elevato nelle aree del Nord Est (-5,5%). Nell’ultimo quinquennio si è registrata la perdita di quasi l’11% di aziende. Il processo di ridimensionamento che interessa il sistema agricolo - emerso dalle elaborazioni Movimprese  di Unioncamere e InfoCamere - è solo in parte da ricondurre alla crescita dimensionale delle imprese verso modelli più competitivi.

La spinta inflattiva dei prezzi all’origine, specie nel comparto vegetale, che aveva dato una boccata d’ossigeno alle aziende fino al primo semestre dell’anno scorso, è andata via via esaurendosi, mantenendo tuttavia nella media d’anno un differenziale positivo dei prezzi (+4,8%) rispetto al 2012.
Un segnale positivo proviene dall’attenuazione dei rialzi dei prezzi degli input produttivi, specie nei capitoli della mangimistica, dei concimi e dei prodotti energetici, che dopo anni di continui inasprimenti ha consentito un miglioramento nel 2013 della ragione di scambio (ossia del rapporto tra i prezzi corrisposti agli agricoltori e costi da essi sostenuti).

Accesso al credito
In relazione invece all’accesso al credito, sono rimasti sostanzialmente stabili gli impieghi bancari del settore primario su base trimestrale (+0,2%) e su base annuale (+0,3%), ma per i finanziamenti oltre il breve termine i dati Ismea-Sgfa indicano un’erosione del credito erogato al settore agricolo di circa 23 punti percentuali su base annua.

Tiene l'industria alimentare 
L’industria alimentare sembra ancora una volta reggere meglio degli altri settori all’urto della crisi, registrando nell’ultimo trimestre dell’anno un incremento del 2,5% su base congiunturale e del 2,9% su base tendenziale.


Arturo Semerari, presidente di Ismea 
e il ministro dell'Agricoltura, Maurizio Martina
(Foto ©Alessandro Vespa - AgroNotizie)

Bene l'export
Alla tenuta del settore un contribuito determinate è venuto dalle vendite oltre frontiera. Nel periodo gennaio–novembre l’export agroalimentare è cresciuto del 4,7%, con la prospettiva di raggiungere a fine 2013 la cifra record di 33 miliardi di euro. Le esportazioni verso i paesi extra europei (+6,7% su base annua) hanno contribuito in misura superiore alla crescita dell’export rispetto a quelle dirette verso i paesi europei, aumentate del 3,8%.
I dati dell’export non devono però entusiasmare, giacché la spinta delle esportazioni dal 2010 a oggi ha subito una progressiva decelerazione, passando da una crescita a due cifre nel 2010 (+12,8%) all’attuale incremento del 4,7%.
Altro dato che necessita di una dovuta attenzione è la performance non particolarmente brillante dei settori di punta del made in Italy, che nell’insieme sono avanzati a ritmo leggermente inferiore rispetto al totale dell’agroalimentare (+4,4% vs +4,7%).

"Sono dati che evidenziano la necessità di dare maggiore impulso alla promozione e protezione al made in Italy, combattendo un’industria della contraffazione che ogni anno ci costa 70 miliardi di euro e 150 mila posti di lavoro", ha commentato il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello.




La catena del valore
Il primo dei due focus del secondo numero di AgrOsserva è dedicato a un’analisi di Ismea della catena del valore in agricoltura. Secondo l’indagine, basata sui nuovi dati dell’Istat, su 100 euro di spesa del consumatore finale per acquistare prodotti agricoli freschi, non soggetti quindi ad alcuna trasformazione industriale, ai produttori rimangono solamente 22,50 euro.
La restante quota risulta così ripartita: 36 euro vanno a remunerare il trade (ingrosso e dettaglio), oltre 25 euro vengono trattenuti da altri operatori indirettamente coinvolti nella filiera (fornitori di mezzi tecnici di servizi finanziari e assicurativi ecc.), circa 9 euro sono riconducibili alle imposte e oltre 8 euro finiscono all’estero a seguito dell’importazione di prodotti direttamente destinati al consumo.
I 22,50 euro che restano in mano agli agricoltori, tolti salari e ammortamenti scendono a 1,8 euro, importo che rappresenta il reddito netto delle aziende primarie. Lo stesso conteggio porta da 36 a più di 15 euro il reddito che resta agli operatori del trade, al netto di salari e ammortamenti.

I prodotti trasformati
Ancora più squilibrata la situazione nel caso dei prodotti trasformati, dove i passaggi che intercorrono tra il “cancello" dell'azienda agricola e il punto di vendita dove si registra l'acquisto finale risultano più numerosi e pertanto più compressa è la quota del valore trattenuta dal settore primario. In quest’ultimo caso, sempre su 100 euro di spesa sostenuta dal consumatore, all’azienda agricola rimane un utile netto di 40 centesimi di euro, mentre 2,3 euro vanno a remunerare la fase industriale e quasi 11 euro quella del commercio.

Risulta evidente, dunque, come il mercato non riesca da solo a garantire margini adeguati alle imprese agricole, la cui redditività risulta schiacciata degli operatori a valle (trade) e a monte (fornitori di mezzi tecnici e di servizi bancari e assicurativi). Nell’ultimo decennio, sottolinea l’Ismea, la presenza di vincoli strutturali, di inefficienze del sistema logistico e degli accresciuti costi energetici hanno determinato la lievitazione dei costi di produzione e di distribuzione, a scapito quasi sempre del reddito dei produttori, che rappresentano la parte contrattualmente più debole della catena.

Produzione e impiego dei rifiuti 
Il secondo focus di questo numero è stato dedicato al tema della gestione dei rifiuti nell’agroalimentare, dal quale si evidenzia una crescente eco-efficienza dell’industria alimentare e delle bevande (A&B), testimoniata da un calo della produzione di rifiuti nel settore e da un aumento della propensione ad avviarli in filiere del recupero.
Negli ultimi anni si rileva una diminuzione dei rifiuti prodotti in totale (-23,1% nel quadriennio 2008-2011) e della produzione di rifiuti per unità di valore aggiunto generato dal settore (-11,9% nel triennio 2008-2010).
Aumentando il dettaglio nella classificazione settoriale, emerge che la diminuzione complessiva registrata nel quadriennio dal 2008 al 2011 è dovuta per oltre l’80% a tre gruppi di attività: la produzione di altri prodotti alimentari (-177.000 t), l’industria lattiero-casearia (-120.000 t) e l’industria delle bevande (-95.000 t).
Nel 2010 la quota di rifiuti avviati a recupero dalle imprese del settore A&B si attesta al 79,3% e di quelli avviati a smaltimento al 20,7%. Il livello di recupero più alto è associato ai rifiuti da raffinazione dello zucchero: 99,2% del totale avviato a gestione, ai quali seguono i rifiuti dell’ortofrutticolo con l’80,9% e quelli della lavorazione di carne e pesce con il 78,5%; si registra, invece, il livello più basso in corrispondenza dei rifiuti da trattamenti lattiero-caseari, indirizzati a operazioni di recupero per il 60,5% della quantità complessivamente avviata a gestione.
Con riferimento alla dinamica del recupero, i dati restituiscono un’immagine dell’industria A&B italiana che incrementa la percentuale di rifiuti avviati a recupero nel biennio 2009-2010, con una variazione del +5,8% in un solo anno, a fronte del +1,3% registrato per l’intero comparto manifatturiero nello stesso periodo.

I dati pubblicati sono stati commentati anche da Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti, che ha sottolineato come la promozione del made in Italy all’estero sia certamente una strada da seguire, ma che darà i suoi frutti solo nel lungo termine. La soluzione, secondo Moncalvo, non può non passare attraverso un’azione volta a dare alle famiglie potere di acquisto, congiunta a una revisione degli equilibri di valore all’interno della filiera che sia più favorevole ai produttori. "Le percentuali che attualmente arrivano al produttore sono risibili – ha dichiarato – e non è un caso che attualmente oltre il 70% delle aziende under 35 si orientino verso la vendita diretta".

Le conclusioni dell’incontro sono state affidate al ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, che si è dichiarato ‘impressionato’ dai numeri esposti.
"Con questa fotografia del sistema agroalimentare italiano abbiamo una base comune per impostare un dialogo e occuparci delle strategie che devono essere messe in atto – ha dichiarato -. Dobbiamo cambiare passo e dobbiamo farlo adesso, mettendo in chiaro che questo mondo è un pilastro fondamentale della ripresa del Paese, che può dettare la sua agenda".
"Abbiamo a disposizione – ha spiegato il ministro Martina – diversi strumenti. Mi riferisco alle scelte sulla nuova Pac e al Collegato Agricoltura, che possono far assumere all’agroalimentare la centralità che merita. Il primo grande tema che deve essere affrontato a breve è legato al costo del lavoro. Bisogna ridurre la discrasia tra quanto viene speso dalle imprese e quanto rimane al lavoratore e quella tra il prezzo del prodotto e il reddito che resta in mano agli agricoltori. Su questo ci giochiamo una partita importante".
"Possiamo dare l’avvio a un piano di azione ragionato, coordinato e strategico – ha concluso il ministro – . Si coglie ovunque, da Nord a Sud la necessita di costruire un piano strategico complessivo".

Secondo rapporto AgrOsserva