C’era una volta un Paese più o meno felice i cui abitanti, vedendo il cielo farsi oscuro e le nuvole scaricare pioggia, erano soliti correlare verbalmente l’avvento del maltempo a una supposta tendenza alla disonestà del governo di turno e ad armarsi di ombrelli, impermeabili e stivali di gomma.
Con il passare degli anni, la storia di quel Paese dimostrò che la pulsione la ladrocinio dei governi non era una diceria popolare e che nella nuova epoca era saggio, accorto e necessario da parte loro espandere il corredo da pioggia che era per secoli stato sufficiente ai loro avi inserendovi pale per fango, imbarcazioni leggere e corsi avanzati di sopravvivenza.
I governi rubavano come e più di prima e in più, ogni volta che pioveva, in quello che era stato il loro “Belpaese”, da qualche parte franava un pezzo di collina o esondava un fiume, rendendo la conta delle vittime e dei danni attività tristemente ricorrente.
Qualora non fosse chiaro: quel paese c’è ancora, ed è l’Italia.

È fuori di dubbio che non tutte le cause deii disastri legati al maltempo possano essere riconducibili a una mancata o trascurata gestione politica ed economica del territorio.
Il mutamento climatico globale ci sta regalando da tempo un tourbillon di neve dove non se ne era mai vista, siccità nordafricana e precipitazioni subtropicali.
Di pochi giorni orsono le immagini delle strade di Catania sommerse da un nubifragio che, in una manciata di minuti, ha rovesciato lo stesso quantitativo d’acqua che di solito si registra in due o tre mesi, con il conseguente collasso dell’unico collettore cittadino e la trasformazione delle strade in tanti impazziti canali.
Impossibile prevedere una precipitazione di questa natura? Forse. Ma certamente ci si trova di fronte a una zona urbanizzata troppo e troppo male, e priva di un qualsiasi sistema di sicurezza degno di tale nome.
Il caso di Catania è solo l’ultimo di una lunghissima serie di casi analoghi che riportano tutti a una matrice comune: l’Italia ha una vulnerabilità altissima nei confronti del rischio idrogeologico e una bassissima capacità di elaborare e portare avanti politiche di gestione del territorio in grado di prevenire le catastrofi.


Territorio ad altissimo rischio ed emergenza cronica

I pochi che ancora si cullano nell’illusione che, nell’ambito della globalità del territorio nazionale, le situazioni critiche e a rischio siano un numero limitato, facilmente determinabile e circoscritto, sono smentiti dai dati diffusi dal ministero dell’Ambiente, secondo i quali sono 6.633 (82%) i Comuni in pericolo per il dissesto idrogeologico; 6 milioni di persone abitano in un territorio ad alto rischio e 22 milioni in zone a rischio medio e del 1.260.000 edifici a rischio di frane e alluvioni 6.251 sono scuole e 547 ospedali.
In una situazione del genere dovrebbe essere ovvio dare la massima priorità alla prevenzione; un po’ come lavarsi regolarmente i denti per evitare dolorosi e costosi incontri con il dentista. In Italia, però, seguire la logica non è certo sport nazionale: preferiamo risparmiare sul dentifricio e farci estrarre qualche dente di tanto in tanto.

“Se è indispensabile intervenire in caso di emergenza, è altrettanto necessario agire preventivamente attraverso azioni e regole comportamentali, che determinino la riduzione del rischio – ha dichiarato Massimo Gargano, presidente di Anbi nella conferenza stampa di presentazione del documento “Proposte per crescita: sicurezza territoriale, alimentare e ambientale”.
Per valutare quali siano le competenze di Anbi in tema di cura e presidio territoriale, basti ricordare che l’azione dei consorzi di bonifica e irrigazione copre il 50% del territorio italiano, cone attività di manutenzione e conservazione del territorio e irrigazione.
Tradotto in numeri, parliamo di oltre 17 milioni di ettari, nei quali rientrano tutta la pianura, la maggior parte delle colline e una parte di montagna.


Un documento "pragmatico"

Il documento dell’Anbi ha dalla sua un elemento fondamentale: è assolutamente pragmatico.
La prima proposta di un Piano per la riduzione del rischio idrogeologico, elaborata sulla base delle indagini e delle indicazioni effettuate dai Consorzi di bonifica risale al 2010, è stata aggiornata nel 2011 e nel 2012 ed è in corso di costante aggiornamento man mano che mutano le condizioni del territorio. Nella sua attuale formulazione, il piano contempla 2.943 interventi immediatamente cantierabili per un importo complessivo di 6.812 milioni di euro.
Quasi sette miliardi di euro sono una bella cifra, soprattutto in periodi di “vacche magre” come quello attuale.
Non stupisce dunque che la prima opposizione che il piano incontra da parte delle istituzioni, sia proprio l’assenza delle risorse necessarie.
Motivazione inaccettabile per Gargano. "Le risorse ci sono - dichiara - e sono quelle stesse risorse che dopo ogni catastrofe vengono stanziate per la ricostruzione. Il problema non è economico, ma di approccio. Di fronte allo strutturarsi di eventi meteorologici estremi, si assiste alla cultura dell’emergenza invece che della prevenzione. La sicurezza territoriale, alimentare e ambientale è invece presupposto indispensabile per la crescita economica di qualsiasi Paese e soprattutto dell’Italia. Nonostante la diffusione della nostra proposta – evidenzia il Presidente Anbi - non vi è stata la considerazione per gli indispensabili provvedimenti attuativi, richiedenti la destinazione di specifiche risorse; anche gli Accordi di Programma Stato-Regioni per la difesa del suolo del 2010 non sono stati finanziati. In buona sostanza, ci hanno completamente ignorato”.

Giusto per fugare all’origine un legittimo dubbio, va chiarito che non ci si trova di fronte a proposte ritenute inutili o irrealizzabili, bensì a programmi di lavoro almeno ufficialmente condivisi da tutto il mondo politico. Condivisi, purtroppo, solo in campagna elettorale e poco sostenuti anche in questo periodo ricco di munifiche promesse e assicurazioni.
Alla resa dei conti, tuttavia, basta dare una scorsa ai programmi della recente campagna elettorale e ci si renderà facilmente conto come un tema così centrale sia stato pressoché ignorato da tutti.


Emergenza e prevenzione

Il motto dovrebbe essere: “meno emergenza, più prevenzione”, filosofia condivisa dall’Europa che trova spazio nella Direttiva relativa alla valutazione e alla gestione del rischio alluvioni. Invece, si persevera nel preferire la cura, alla prevenzione. 
Da un punto di vista economico i vantaggi della prevenzione sono indubbi. Esemplare in tal senso l’alluvione dello scorso novembre nella Maremma grossetana – area riconosciuta come ad alto rischio – dove per far fronte ai danni sono stati stanziati, tra governo e regione, circa 210 milioni di euro e per la quale erano stati proposti interventi preventivi che ne sarebbero costati poco più di 90 e avrebbe probabilmente evitato le cinque vittime.


Competenze nella nebbia, risorse e piano irriguo nazionale

“L'ordinamento della difesa del suolo ha bisogno di urgenti provvedimenti per regolare le Autorità didDistretto idrografico secondo le indicazioni delle Direttive europee - ha ribadito il numero uno dell'Anbi -. Nel nostro Paese si sono invece adottate solo norme transitorie”.

In Italia, i soggetti attualmente deputati alla difesa del suolo nel nostro Paese sono lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, i Consorzi di bonifica, secondo le rispettive competenze istituzionali.
Come troppo spesso accade, tuttavia, le linee di demarcazione tra le singole competenze sono tutt’altro che chiare e inamovibili, con la conseguente proliferazione di ostacoli burocratici e la difficile individuazione di un unico soggetto responsabile.
Quando poi dalle competenze e responsabilità si passa a parlare di risorse, la situazione si fa parecchio ingarbugliata, anche perché al tema della difesa dal dissesto idrogeologico si aggiunge quello della gestione dell’acqua destinata all’irrigazione in agricoltura e a tutti i risvolti economici che tali attività hanno sul piano della realtà contingente.

Gli oneri di manutenzione ordinaria delle opere consortili sono prevalentemente a carico dei consorziati: nel 2011 sono stati 566 milioni di euro, versati da 7.700.000  contribuenti.
L’Anbi, nel frattempo, ha fatto la sua parte per ottimizzare il rapporto tra costi ed efficienza: “Abbiamo anche noi avuto la nostra fetta di spending review - ha spiegato Gargano - e i consorzi sono passati agli attuali 127, rispetto ai 250 degli anni ‘70 e ai 180 del 1998. Il territorio sul quale i Consorzi operano, non ha però subito riduzioni ed è in continua evoluzione anche sotto il profilo economico legato all’agricoltura.
Per poter competere sul mercato globalizzato
– ha proseguito - l'Italia deve puntare su un'agricoltura intensiva e specializzata, l’irrigazione è quindi una dominante esigenza strutturale: circa l’87% della produzione agricola italiana dipende, sia pure in grado diverso, dall'irrigazione; i 2/3 del valore delle esportazioni agricole italiane sono costituiti da prodotti ottenuti in territori irrigati. Senza contare i benefici effetti ambientali dell’irrigazione.”

Il Piano irriguo nazionale è stato predisposto dal 2004, con una previsione di investimenti pari a circa 7 miliardi di euro. Dopo una prima tranche, si sono registrate riduzioni sugli stanziamenti da attivare attraverso mutui quindicennali.
La storia si è ripetuta nel 2008, quando la Legge finanziaria autorizzò uno stanziamento di 100 milioni euro, per la durata di 15 anni a partire dal 2011, ridotti poi a un’assegnazione annuale di soli € 53.475.441 milioni.
Il risultato finale è stato il finanziamento di interventi per meno di 600 milioni (a fronte dei 1.500 previsti), destinati per il 70% ad opere nel Centro Nord e per il resto al Mezzogiorno.

“Esistono progetti per l’ammodernamento degli impianti, per la riduzione delle perdite idriche e per l’introduzione di metodi irrigui ad alta efficienza – ha detto Gargano –. È indispensabile provvedere al completamento del Piano attraverso un finanziamento pluriennale e un  sistema di mutui quindicennali".


Il documento e la nuova Pac

Nell’ambito dei Piani di sviluppo rurale, i Consorzi si sono dimostrati affidabili realizzatori di opere per l’ammodernamento di impianti irrigui, la salvaguardia dal rischio idraulico e tutela dell’ambiente.
Sulla base di questa esperienza, si ripropongono per gli interventi che saranno previsti dai Fondi comunitari 2014/2020, per la programmazione dei quali Anbi ha presentato il 27 dicembre scorso, il documento su “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei Fondi Comunitari 2014-2020”, che apre il confronto pubblico per preparare l’accordo di partenariato e i programmi operativi da cui il prossimo Governo dovrà elaborare le proposte da presentare alla Commissione europea.

“L’auspicio – sottolinea il direttore generale Anbi, Anna Maria Martuccelli - è che quanto previsto venga confermato nel documento finale sull’Accordo di Partenariato e nei Programmi Operativi, che dovranno essere formulati dal futuro Governo”.

Una delle opzioni strategiche, su cui l’Ue ha invitato gli Stati membri a concentrarsi, è quella delle “aree interne”. Anche in questo caso, i Consorzi potrebbero essere utilizzati per interventi di difesa idrogeologica, costruzione di laghetti collinari e altre azioni di sviluppo rurale.


Le energie rinnovabili

Una nuova prospettiva offerta dal documento è quella del contributo dei Consorzi di bonifica nel settore delle energie rinnovabili con la  realizzazione di piccole centrali idroelettriche, un centinaio delle quali sono già state realizzate e producono annualmente 380 milioni di chilowattora. A queste si devono poi aggiungere 36 impianti fotovoltaici “non a terra”, per una ulteriore produzione di circa 1 milione di chilowattora.