Giuseppe Pulina, ordinario di zootecnica speciale dell'Università di Sassari, coordinatore del comitato tecnico scientifico Assalzoo (l'associazione che riunisce le industrie mangimistiche), autore di centinaia di pubblicazioni scientifiche, un lungo elenco di altri incarichi e ruoli di responsabilità che affollano il suo curriculum, impossibile da riassumere in poche righe.

A questi si è aggiunta da breve tempo la presidenza di Carni sostenibili, sodalizio al quale hanno dato vita un gruppo di aziende e associazioni del mondo zootecnico, con l'intento di mostrare che la produzione e il consumo di carne possono essere sostenibili, sia per la salute sia per l'ambiente. Compito che potrà trovare nella presidenza di Giuseppe Pulina nuovi stimoli.

Ne sono convinto dopo aver avuto l'occasione di scambiare con lui alcune opinioni e pareri sulla nostra zootecnia. A iniziare dall'impoverimento del nostro patrimonio bovino.
Lo dicono le recenti analisi di Istat che mostrano un'ulteriore contrazione nel 2017.

Ho chiesto a Giuseppe Pulina se esiste una "ricetta" per fermare questa emorragia.
"Per risponderle – mi dice prontamente Pulina – dobbiamo esaminare il problema a livello globale. Scopriamo così che nel mondo il consumo di carne bovina è in crescita, un trend destinato a proseguire sino al 2050, sebbene su livelli meno elevati rispetto alle carni suine e avicole. Siamo dunque in una fase di espansione.
Poiché la nostra zootecnia non partecipa a questa crescita, dobbiamo prendere atto che il problema ha in Italia connotati strutturali.
Il primo problema è la dimensione delle nostre aziende, troppo piccole per la fase vacca-vitello, che dovrebbe darci la materia prima, i vitelli, per produrre carne bovina.
Dimensioni modeste che comportano scarsa o nulla redditività, che invece esiste per altri tipi di produzione.
Senza dimenticare gli effetti dello spopolamento delle aree marginali, tradizionalmente dedicate all'allevamento.
A questi elementi di carattere strutturale si aggiunge un ritardo nella valorizzazione delle filiere nazionali
".

Eppure, ribatto, in Italia vantiamo razze bovine da carne dalle grandi qualità.
"Guardi - mi risponde serio Pulina - a parte due o tre razze, e potremmo citare la Piemontese e la Chianina, si tratta di numeri esigui, anche se siamo di fronte a soggetti di alto pregio.
Eccellenze che faticano a imporsi e la dimostrazione la troviamo, per fare un esempio, nei ristoranti delle aree metropolitane dove ci propongono carne argentina, carne di angus, irlandesi o dell'estremo oriente.
Basta questo a dimostrare la differenza di passo fra le carni in grado di affermare il proprio marchio e le nostre, che non riescono in questa impresa
".

C'è una soluzione?
"Si, si chiama cru - mi dice con convinzione Pulina - o se preferisce, prendo in prestito il termine francese terroir, che si utilizza per i vini.
Un esempio per spiegarmi meglio. Prendiamo il caso del pascolamento del bovino per la linea vacca vitello.
Si ottiene un animale dalle eccellenti prerogative, qualità che si corre il rischio di distruggere nella fase di finissaggio in stalla, se non si seguono alcune regole di base.
In altre parole, è inutile che io faccia un ottimo vigneto se poi porto il vino all'ammasso. Certo, costerà di più, molto di più. Ma varrà di più e lo si vedrà nel prezzo di vendita
".

Utili le etichette con le indicazioni di origine che si vorrebbero anche nei ristoranti?
"Certamente. E non solo l'origine.
Sapere che un bovino, magari di razza podolica, ha pascolato fra i rosmarini, o che un bovino si è alimentato fra le erbe aromatiche dell'appennino, è un valore aggiunto.
Ma quando quel bovino dal pascolo entra in stalla per concludere il ciclo produttivo, ci deve essere un impegno a non disperdere la qualità che si è ottenuta nella prima parte della sua vita.
Altrimenti che differenza avremmo rispetto a un broutard nato e allevato altrove e poi finito di ingrassare in Italia? Nessuna
".

Il "segreto" per conservare questa qualità si cela nelle tecniche di allevamento o nell'alimentazione?
"Soprattutto nell'alimentazione.
C'è un'eccessiva attenzione per gli indici di conversione degli alimenti, con l'obiettivo di ridurre il costo del chilo di carne prodotta.
Quello che conta non è l'incremento ponderale, ma l'incremento del valore. Che poi si traduce nel prezzo che riesco ad esigere.
Ricordo che la nostra industria mangimistica dispone di protocolli di qualità per mantenere il valore dei vitelli in ingrassamento. Andrebbero evitati gli effetti nocivi del fai da te che mirano al risparmio sulle materie prime alimentari
".

La qualità delle produzioni ha molti punti di contatto con il benessere animale, argomento sempre più al centro degli interessi del legislatore europeo e della ricerca, che in Italia annovera punti di eccellenza in vari comparti, da quello avicolo a quello suino e non ultimo quello bovino. Sul piano pratico quali situazioni incontriamo?
"Abbiamo due fasce di ascoltatori - risponde Pulina - Sarebbe improprio chiamarli in altro modo.
Chi ascolta con pregiudizio e possiamo raccontargli qualunque verità, che rimarrebbe inascoltata. C'è poi la fascia di chi ascolta senza pregiudizio ed è disposto a comprendere.
Nella categoria dei non ascoltatori occorre scendere su un piano etico e su questo confrontarsi.
Per la seconda categoria, quelli che "ascoltano", occorre presentarsi con esempi concreti e risultati tangibili, altrimenti il benessere animale si traduce solo in moduli da compilare per assecondare gli obblighi verso le Asl.
Iniziamo allora con il definire cosa si intende con benessere animale. La ricerca ha dato numerosi parametri di riferimento, valutando l'assetto ormonale, quello comportamentale o psicoattitudinale e altro ancora.
Dal mio punto di vista l'unico parametro reale per misurare il benessere dell'animale risiede nella valutazione del benessere dell'allevatore
".

E' una visione originale, ma si può obiettare che il benessere dell'allevatore potrebbe non coincidere con quello dell'animale.
"Faccio chiarezza. Quando parlo di allevatori mi riferisco a persone che lavorano per il bene degli animali, non semplicemente per il loro benessere.
Il vero allevatore è consapevole che il suo benessere deriva dal bene degli animali
".
Qualche esempio? Penso all'allevatore che passa la notte in piedi per il parto della vacca, che la cura sino a quando è possibile, senza arrendersi.
Perché c'è un antico patto fra allevatore e animale. E questo distingue gli allevamenti intensivi dagli allevamenti industriali. I primi sono fatti con animali, i secondi con oggetti
".
 
Giuseppe Pulina, professore dell'Università di Sassari
Il professor Giuseppe Pulina distingue gli allevamenti intensivi, fatti con gli animali, da quelli industriali, fatti con 'oggetti'?

Parliamo di sicurezza e qualità delle produzioni. In Italia siamo su ottimi livelli, destinati a rafforzarsi con l'arrivo della ricetta elettronica e del veterinario aziendale.
Però il consumatore il più delle volte non ne è consapevole. Di chi è la colpa?

"All'atto dell'acquisto, in particolare di derrate alimentari, si è certi che i prerequisiti di sicurezza siano soddisfatti. Tanto che insistere nel descriverli potrebbe sortire un effetto opposto, generando sospetto piuttosto che certezza.
Diverso è l'approccio sulla qualità, che ha in sé un paradigma semplice e persino banale. Se una cosa vale molto non la paghi poco.
Allora si deve dare valore alla qualità, lavorando sui concetti di distintività del prodotto. Prendo in prestito l'esempio dello Champagne. A nessuno verrebbe mai in mente che in quella bottiglia possa celarsi un qualche residuo tossico. La carne potrebbe seguire un percorso analogo. E non avrebbe bisogno di comunicare altro
".

Parlando di sicurezza e delle carni, occorre ricordare che in tutti i settori della zootecnia si fa un grande sforzo per evitare il ricorso agli antibiotici, al fine di limitare i fenomeni di antibiotico resistenza.
Uno sforzo persino maggiore di quello che si fa in medicina umana. Si può chiedere di più al mondo degli allevamenti?

"C'è in ballo - ricorda con autorevolezza Pulina - un problema serio di salute pubblica nel quale sono coinvolti anche gli allevamenti, che devono fare la loro parte, ma all'interno di una presa di coscienza collettiva.
Fatto pari a 100 il problema dell'antibiotico resistenza, è stato stimato che le responsabilità della zootecnia siano limitate a circa il 20%. Se non si interviene contemporaneamente sul rimanente 80%, ogni sforzo in campo animale è destinato all'insuccesso sul piano generale.
Penso allora alle forti responsabilità in campo ospedaliero, e più in generale in medicina umana, dove abbiamo un sovradosaggio non ben documentato di questi farmaci.
Agli allevatori va in ogni caso rivolto un caloroso appello a non utilizzare gli antibiotici come fattori auxinici, cosa peraltro vietata da anni.
Mi piace immaginare che si possa fare un patto fra allevatori e società, che si traduce in un attento rispetto delle regole, e un patto fra allevatori e animali, per garantire il benessere di questi ultimi
".

Abbiamo così messo un punto fermo sulle reali responsabilità degli allevamenti quando si parla di antibiotico resistenza. Ma agli allevamenti, in questo caso di bovini, si rivolgono pesanti accuse anche in campo ambientale.
Le loro emissioni di gas ad effetto serra, come il metano, sarebbero fra gli "indiziati" dei cambiamenti climatici.
E' forte il sospetto che le cause principali siano altrove. Cosa ne pensa?

"Le anticipo la prossima uscita di un libro che si occupa proprio di questo argomento. Sulla base di ricerche fatte da paleozoologi, riporto in questa pubblicazione la stima delle emissioni dei dinosauri. Ma non mi fermo lì, prendo in esame anche le emissioni della fauna selvatica americana, prima dell'arrivo delle caravelle di Colombo.
Rispetto ad allora, tutto il sistema zootecnico americano produce appena il 14% in più di metano.
Ma c'è di più. Se lasciamo che i bisonti possano riprendere possesso delle praterie, produrrebbero persino più metano di quello emesso oggi dagli allevamenti.
Lasciamoli in pace
– dice sorridendo Pulina - questi allevamenti di bovini".

Però intervenendo sull'alimentazione si potrebbe ridurre la quota di metano prodotta dai bovini.
Sarebbe comunque un contributo all'ambiente.

"Provo ad articolare in altro modo la sua domanda. Come si possono ridurre le emissioni di gas serra nel mondo? Certo senza prendermela con i ruminanti.
Tuttavia se miglioro gli allevamenti miglioro anche l'ambiente. E c'è una dimostrazione. Andiamo al 1960, quando c'erano molte più vacche da latte e il metano prodotto era doppio rispetto a oggi. Invece la quantità di latte era la metà.
Oggi, di conseguenza, la quantità di metano per ogni litro di latte è un quarto di quella che veniva emessa nel 1960. Conclusione, la via per abbattere i gas serra sono gli allevamenti intensivi. Purché sostenibili, dove gli animali sono trattati per quello che sono e non come oggetti, voglio ribadirlo.
L'approccio a questo argomento dovrebbe poi comprendere tutto il "sistema" dell'allevamento e non il singolo animale.
Prendiamo il caso degli ovini da latte e del pascolo, che ne rappresenta il complemento. In questo caso il sequestro di carbonio che si ottiene è maggiore delle emissioni prodotte.
In Sardegna, "regno" degli ovini, quando si compra un litro di latte di pecora si sta sequestrando carbonio, non lo si sta emettendo
".

Mi spieghi dove sta il "trucco".
"Facile. Prendiamo un ettaro di pascolo, che lascio evolvere a vegetazione spontanea, sino a diventare foresta. Che ogni 100 anni circa brucerà per eventi del tutto naturali. E tutto il carbonio andrà in fumo.
Un pascolo, invece, nelle sue radici stocca carbonio con una efficienza di gran lunga superiore a quella di una foresta, grazie al fatto che la superficie fogliare di un ettaro di pascolo è incomparabilmente superiore a quella dello stesso ettaro a foresta.
Dai pascoli otteniamo un eccellente carbon sink (sottrazione di CO2) e dobbiamo ringraziare le pecore che ci pascolano sopra. Non sarebbe così
se ci vado a giocare a golf o, peggio, se lo lascio in balia di sé stesso".

Dai pascoli della Sardegna agli accordi di scambio commerciale internazionali il passo può sembrare lungo.
Ma il Ceta (fra Ue e Canada) o gli accordi con i paesi del Mercosur, in Sudamerica, possono avere ripercussioni sulla nostra zootecnia. Opportunità o al contrario motivi di preoccupazione?

"Prima di rispondere a questa domanda - riflette Pulina - dobbiamo porci un altro quesito. Perché facciamo agricoltura? Ovviamente per dare da mangiare alla gente. Non è un impegno di poco conto.
Se prendiamo tutta la popolazione del mondo, 7,5 miliardi di persone, e la mettiamo intorno a un tavolo, come si fa nelle sagre paesane, la tavolata ha una lunghezza che va dalla terra alla luna per tre volte.
Un paragone che aiuta a dimostrare quanto l'approvvigionamento alimentare sia elemento cruciale, dalle conseguenze di enorme portata, si pensi alle ondate migratorie o persino alle guerre.
E' indispensabile ogni sforzo affinché il pane quotidiano, ovvero cereali e carni, magari di pollo perché meno costose, possano giungere ovunque e a basso, bassissimo costo.
Questo il quadro generale, ma torniamo in Italia per vedere come ci collochiamo nel mondo.
Siamo "condannati" a inseguire produzioni di elite, mentre altri paesi dovranno preoccuparsi più di noi di come dar da mangiare al mondo.
Ne consegue che dobbiamo lasciare accesso alle produzioni che offrono garanzie di sicurezza, ma escludere quelle realizzate senza rispetto per l'uomo, come il lavoro infantile o il moderno schiavismo, siano queste alimentari o non.
Dobbiamo erigere barriere etiche, non tariffarie. Tutto il resto sono solo beghe di bottega
".