Le alchimie mediatiche sono capaci di scatenare psicosi collettive che spesso precedono la valutazione scientifica sull’effettiva pericolosità del fenomeno. Di fatto, come è accaduto costantemente negli ultimi 25 anni, le presunte pandemie si rivelano, almeno nel nostro Paese, praticamente inoffensive, mentre sono in grado di provocare dei danni enormi all’agroalimentare italiano. Il tutto, è costato al settore, nel suo complesso, già 15 miliardi di euro. Ad evidenziarlo sono i primi dati di uno studio della Cia-Confederazione italiana agricoltori che analizza il fenomeno italiano nel rapporto tra fobie e consumi alimentari.

Ai tempi della grande diffusione della Bse, il morbo della mucca pazza, nel Regno Unito (dove sono morte 120 persone per contagio da bovini malati), in Italia, l’opinione pubblica veniva allertata con previsioni di migliaia di vittime. Nella realtà, si sono verificati solo due casi di contagio e nessun decesso, mentre una malattia apparentemente conosciuta e curabile come il morbillo solo nel 2005 faceva registrare 345 mila morti a livello mondiale, 60 mila contagiati e decine di decessi solo in Italia.

Nel 2003 l’Oms prevedeva, ricorda la Cia, che l’aviaria avrebbe ucciso 150 milioni di persone a livello mondiale, mentre i contagi sono stati 369 e i morti 247, soprattutto in Vietnam, Indonesia, Egitto, Thailandia e Cina, paesi in cui c’è un contatto molto stretto con gli animali; in Europa non si è registrato neppure un caso di contagio sugli uomini. L’allarme pandemico, però, ha portato i consumi di pollame a una diminuzione dell’80%, provocando delle perdite per il settore di due miliardi di euro, per poi scoprire che nessun allevamento italiano era stato contaminato.

Nei primi mesi del 2008, sottolinea la Cia, il pericolo diossina, legato allo scandalo dei rifiuti in Campania, è costato ai produttori di mozzarelle di bufala tra i 20 e i 25 milioni di euro, mentre poi è stato accertato che il livello della sostanza tossica contenuto nelle mozzarelle non era rischioso per la salute umana

Al 2009, prosegue la Cia, risale l’allarme per la febbre suina che ha causato 369 morti in Messico, ma nessuno in Europa. Mentre sulla scia del più recente caso delle mozzarelle blu si è arrivato già a parlare di altri rischi assurdi come il “formaggio fluorescente” o la “ricotta rossa”.

Si tratta, afferma la Cia, in tutti questi casi, di disastri mancati che hanno smentito costantemente le previsioni catastrofiche di milioni di morti ed emergenze sanitarie gigantesche, che però hanno messo in ginocchio un intero settore economico del Paese.

Sommando i danni derivati dalle presunte epidemie, le frodi alimentari e l’agropirateria degli ultimi 25 anni, si arriva ad una cifra complessiva di 15 miliardi di euro per il settore primario, paralizzato dall’atteggiamento eccessivamente precauzionale delle istituzioni e del mondo dell’informazione.

L’unico esempio, evidenzia la Cia, in cui un’emergenza alimentare si è trasformata in un progresso del settore è il caso del vino al metanolo del 1986. Paradossalmente in questo caso si è creato un meccanismo inverso. Inizialmente la reale gravità del fenomeno (ci furono 19 morti da avvelenamento e 15 persone persero la vista a causa dell’adulterazione del vino) causò il crollo di consumi ed esportazioni, che si ridussero a un terzo rispetto all’anno precedente e il successivo blocco delle forniture italiane alla dogana.

La prima grande frode alimentare italiana si è però presto trasformata in un salto di qualità che ha portato il settore vinicolo ai livelli attuali di primato. Alzando la soglia dell’attenzione sulla sicurezza alimentare, ha portato alla moltiplicazione dei controlli, creando i presupposti di garanzia di qualità che hanno reso il vino italiano un prodotto pregiato e competitivo sul mercato internazionale. Dopo vent’anni, nonostante si produca molto meno di allora, il fatturato è triplicato (+260%), così come il valore dell’export (+250%); mentre il numero dei vini certificati è raddoppiato (passando dai 228 del 1986 ai 460 di oggi).