Chissà cosa ne pensa Enrico Bondi. Lo avevano nominato commissario straordinario di una Parmalat nel pieno della bufera. E magari qualcuno pensava persino che non ce l'avrebbe fatta a risollevare le sorti del colosso del latte travolto dai debiti e dallo scandalo. Eppure dopo poco Parmalat ricominciava, lentamente, a macinare utili. Tanto che Enrico Bondi, dismesso il vestito di Commissario, indossava poco dopo quello di amministratore delegato. E continuava a far crescere il gruppo sino ad arrivare alla quotazione in borsa. Se ne è parlato poco, ma quello raggiunto da Bondi è stato un gran risultato. Passato quasi in silenzio, nonostante nella cassaforte di Parmalat si fosse raccolto un bel gruzzolo, circa 1,4 miliardi di euro. Ci ha pensato la scadenza del mandato a Bondi a far tornare Parmalat sotto i riflettori della cronaca, solo quella finanziaria però, più attenta a registrare i cambi nei vertici delle società. A nessuno era venuto in mente che Parmalat era nel frattempo diventata una bella azienda, un “buon partito” per possibili acquisizioni. Ci voleva Lactalis, colosso francese del settore lattiero caseario, per far capire agli italiani quanto valesse Parmalat. E da quel momento è stato tutto un fiorire di proposte e controproposte per evitare lo “scippo francese”, al grido di salviamo il Made in Italy. Appello tardivo e anche poco comprensibile. Parmalat, come la maggior parte dell'industria casearia italiana, ricorre a quote importanti di latte importato per far fronte alle richieste del mercato. Non serve la dichiarazione in etichetta per sapere che molto del latte a lunga conservazione consumato in Italia (e non solo quello...) proviene da vacche allevate Oltralpe e anche più in là, dove i prezzi sono più bassi.

 

La contromossa

E mentre in Italia ci si struggeva nel mettere insieme una cordata (sempre più sfilacciata) disponibile ad acquisire il controllo di Parmalat, ecco arrivare da Lactalis una contromossa inattesa, l'Opa, l'offerta pubblica di acquisto delle azioni Parmalat ad un prezzo assai allettante, oltre il 21% in più rispetto alla quotazione media degli ultimi dodici mesi. L'obiettivo è il controllo totale di Parmalat, con una spesa complessiva di circa 4,5 miliardi di euro. Non entriamo nei dettagli, ne sono pieni i quotidiani di questi giorni e chi ne volesse sapere di più può dare un'occhiata a “Corpo 8” in questo numero di Agronotizie.

 

Un gigante

Fare previsioni è prematuro, anche se appare sempre più probabile il passaggio di Parmalat nell'orbita di Lactalis. Che in questo caso diverrebbe il primo gruppo lattiero caseario d'Europa e un “gigante” del settore in Italia, dove già ha fatto incetta (e nessuno se ne faceva cruccio...) di aziende come Galbani, Cademartori, Invernizzi, tanto per citare i marchi più noti.

In questa ipotesi Lactalis si troverebbe in una posizione dominante e c'è da chiedersi quale sarà il suo atteggiamento nei confronti degli allevatori italiani, quando sarà il momento di definire il prezzo del latte. Faticosamente in Lombardia (dove Lactalis è presente in modo significativo) si è raggiunto un accordo per fissare a 39 centesimi il prezzo di un litro di latte (diventeranno 40,02 centesimi solo a luglio). Poco, tant'è che alcune sigle sindacali hanno espresso forti critiche facendo anche mancare la propria firma. Con l'acquisizione di Parmalat il potere contrattuale di Lactalis (già enorme, rispetto a quello degli allevatori) sarebbe ancora maggiore e la tentazione di giocare al ribasso sul prezzo del latte potrebbe prevalere.

 

Ci vorrebbe Bondi

Ma inutile adesso fasciarsi la testa. Gli allevatori, in ogni caso, farebbero bene a chiedere alle loro organizzazioni di attrezzarsi per fronteggiare una sfida che sarà comunque dura. Altro che dividersi su ogni cosa come ancora continuano a fare. Anche alla zootecnia italiana, in una crisi non meno devastante rispetto alla Parmalat del dopo-Tanzi, servirebbe una “guida” come quella di Enrico Bondi. Che avrà altro di cui occuparsi e che difficilmente accetterebbe. Peccato.