C’è ancora un buon margine per fare business e la Puglia comincia decisamente a farsi largo proprio negli Usa nella fascia media del vino in bottiglia, tra 10 e 20 dollari. Un affare fiutato anche da diversi vignaioli tarantini, che hanno capito le notevoli possibilità di commercializzazione offerte da questo mercato.
“Siamo presenti negli Usa da 5 anni – spiega Michele Barulli, della Agricola Fabiana di San Giorgio Jonico – e per noi è stata una grandissima sfida: eravamo agricoltori da generazioni, ma vinificatori lo siamo solo da otto anni. Vendiamo il nostro vino in Pennsylvania, Massachusetts, California e naturalmente a Manhattan, cuore della grande mela, oltre che in Australia e in Europa, soprattutto Germania, Inghilterra e Lussemburgo”.
“Il segnale che il mercato gradisce il nostro prodotto – sottolinea il presidente di Confagricoltura Taranto, Luca Lazzàro - è arrivato durante l’ultimo Vinitaly, dove l’export del vino pugliese è stato accreditato di una crescita del 6%. A trainare il trend positivo è il vino a denominazione d’origine, Doc e Docg, segno inequivocabile che la scelta di puntare sulla qualità sta premiando i produttori con sempre migliori risultati”.
Una stima valida anche per il mercato a stelle e strisce, dove in generale il vino italiano la fa da padrone con una quota - secondo l’Italian Wine & Food Institute di New York - vicina al 30% in quantità (2,1 milioni di ettolitri nel 2015) e più del 33% in valore (1,1 miliardi di dollari).
Oltre agli affermati vini fermi toscani e al Prosecco veneto, è la scoperta dei corposi vini del Sud che sta incuriosendo i consumatori americani, giovani e donne in particolare, e prendendo piede nei ristoranti di medio e alto livello: "Il 70 per cento della nostra produzione – conferma Barulli – finisce sugli scaffali di prestigiose enoteche e sui tavoli di noti ristoranti americani: Primitivo soprattutto, ma anche Negroamaro, Fiano del Salento e Chardonnay". Settanta, ottantamila bottiglie che ogni anno varcano l’Oceano da “emigranti” di lusso.
Arrivarci, però, non è stato facile. Lo sa bene Fabiana Barulli che si è trasferita negli States proprio per commercializzare il marchio di famiglia: "Il vino si fa in vigna – spiega Michele – ma poi la concorrenza è spietata e fortissima, soprattutto per chi non ha un brand molto noto. Allora serve qualcosa in più: il vino va spiegato, il consumatore va educato al saper bere, è necessario confrontare le diverse tipologie di prodotto. E poi bisogna raccontare la storia, la tradizione, la cultura che c’è dentro ogni bottiglia".
L’unico modo per farlo al meglio, allora, è stare sul posto: "All’inizio – ricorda Barulli – ci siamo appoggiati ad un esportatore italiano, poi mia sorella si è trasferita negli Usa, ha preso la licenza da importatrice e ha cominciato a lavorare assieme ad un operatore americano: è stato il più grande ostacolo da superare, ma ci siamo riusciti".
Difficoltà e opportunità che il Report 2016 “Il mercato del vino negli Stati Uniti” definisce molto chiaramente: “L’importatore deve avere una licenza federale, valida su tutto il territorio statunitense e il distributore deve avere una licenza per ognuno degli Stati dell’Unione”. Ciò che complica ulteriormente le cose è “la notevole eterogeneità di regolamentazioni per ciò che riguarda le bevande alcoliche, come anche differenze nell’imposizione fiscale, nei diversi Stati dell’Unione”. Bisogna poi tener presente che un segmento in forte crescita nel mercato statunitense negli ultimi anni è quello dei vini biologici.
Infine, i canali commerciali: le catene della Grande distribuzione organizzata dominano il mercato col 50% dei vini venduti, al canale Horeca va una quota del 20% mentre la parte restante è appannaggio dei negozi specializzati. Sfida complessa ma, come dimostra il caso dell’Agricola Fabiana, dalle grandi potenzialità.