La transizione ecologica e ambientale è un processo ineluttabile. Inutile ostinarsi a cercare il contrario, a fermare l'onda verde che si muove sulla spinta di cittadini e consumatori europei (in particolare i giovani) che chiedono sicurezza alimentare, sostenibilità dei prodotti, riduzione delle emissioni.

 

In quest'ottica il Green Deal presentato a fine 2019 e le strategie ad esso correlate o ad esso riconducibili puntano proprio in questa direzione: favorire l'economia circolare, la diffusione delle energie rinnovabili, il taglio delle emissioni, la riduzione di fertilizzanti e agrofarmaci con corollari verdi annessi.

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Chi si occupa di agricoltura e chi di agricoltura ci vive ha sollevato un'obiezione difficilmente rigettabile e cioè che un ridimensionamento della chimica in proporzioni così brutali e in tempi così rapidi avrebbe ripercussioni sui livelli di produttività in Europa, abbattendo le rese in campo e costringendo a importare, magari da aree del mondo in cui non c'è la stessa sensibilità ambientale accordata da legislatore e cittadini comunitari. Tutto ciò in una fase in cui gli scambi mondiali stanno disegnando nuove traiettorie. Fin qui, nulla di nuovo.

 

Quello che colpisce, invece, è l'approccio aggressivo, per non dire distruttivo, che alcuni Paesi europei mostrano nei confronti della zootecnia. Si punta a riforare pesantemente il settore, riducendo il numero dei capi allevati, adducendo ragioni ambientali e contraddicendo quanto affermano gli studiosi - dal pool di Carni Sostenibili capitanato dal professor Giuseppe Pulina fino all'Università di Wageningen - e cioè che l'allevamento e la valorizzazione dei reflui sul piano dell'energia rinnovabile e dell'utilizzo del digestato come elemento nutritivo organico del terreno rappresentano un percorso privilegiato di circular economy.

 

Basterebbe questo per individuare soluzioni, strategie, processi per ridurre l'impatto ambientale. Invece l'Europa, seguita al traino da alcuni singoli Stati membri, ha preso scorciatoie che potrebbero rivelarsi miopi e suicide.

 

I Paesi Bassi hanno lanciato una crociata contro i nitrati e le emissioni senza quartiere, mettendo addirittura sul piatto quasi 2 miliardi di euro per acquistare gli allevamenti e ridurre l'impatto ambientale, come se la zootecnia fosse la prima responsabile delle emissioni. La decisione, superfluo dirlo, ha fatto infuriare gli agricoltori che da un lato si sono coalizzati in un movimento politico (il BBB, BoerBurgerBeweging), vincendo anche alcune tornate elettorali, mentre dall'altro hanno stretto alleanze con cooperative, istituti bancari e imprese tecnologicamente avanzate per imboccare rapidamente la strada della produzione più sostenibile.

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Della Germania si conoscono le politiche aggressive dei Verdi, con le crociate contro l'eutrofizzazione del Mare del Nord, l'alleggerimento del carico dei nitrati e, finalmente dopo alcuni anni di braccio di ferro con la Commissione Ue, la chiusura della procedura d'infrazione proprio sul tema azoto.

 

Ora è la volta dell'Irlanda. Il Dipartimento di Agricoltura di Dublino ha annunciato un taglio nell'arco di tre anni di 200mila bovini per aiutare a raggiungere gli obiettivi ambientali, sostenendo di fatto una sorta di piano di prepensionamento degli allevatori.

 

Possibile che non esistano altre soluzioni? Difficile trovare nuovi equilibri e scommettere, magari, su buone pratiche ambientali, agricoltura rigenerativa (Cargill sta portando avanti un progetto innovativo e in grado di remunerare le imprese), agricoltura di precisione, valorizzazione dei sistemi di sequestro di carbonio, banche dei reflui, Tecniche di Evoluzione Assistita (Tea) ed economia circolare? Tutto questo mentre il biologico, sostenuto a colpi di incentivi e nei nuovi piani di Bruxelles uno dei grandi obiettivi del prossimo futuro (col 30% di Sau in regime "organic" entro il 2030), sta attraversando una crisi che non è tanto vocazionale, quanto economica.

 

Sembra che la Commissione Europea si sia dimenticata di muoversi a braccetto con gli agricoltori, procedendo a colpi di divieti e imposizioni, ma senza offrire soluzioni valide o alternative efficaci. E così i bieticoltori austriaci spingono per una deroga all'utilizzo dei neonicotinoidi, messi al bando dall'Ue senza preoccuparsi di come contrastare il punteruolo della barbabietola.

 

O, ancora, ci troviamo di fronte alla Commissione Ue che declassa il digestato da fertilizzante ad ammendante, una scelta che forse sul piano scientifico potrebbe starci tutta, ma allo stesso tempo rischia di frenare lo slancio degli agricoltori verso biogas e biometano e non risolve le criticità legate all'uso di fertilizzanti chimici, a partire dai costi che, benché in flessione sul 2022, restano più alti rispetto alla fase pre guerra in Ucraina.

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Che fare? È possibile trovare nuove strategie, magari coinvolgendo più soggetti e realtà fra loro differenti? In Svezia trasformano le deiezioni umane in fertilizzanti per l'agricoltura. Le comunità energetiche forniscono opportunità di energia pulita, conveniente e a chilometro zero. Dobbiamo per forza condannare a morte gli allevamenti?