Questo secondo Aaron Blair, epidemiologo del U.S. National Cancer Institute, il quale avrebbe fatto queste ammissioni in tribunale durante una causa intentata contro Monsanto.
Tentativo di insabbiare studi imbarazzanti? Manovre dei soliti "poteri forti" per nascondere scomode verità? No. Esattamente il contrario. Gli studi citati da Blair dimostravano la non cancerogenicità di glifosate, per lo meno in tema di linfoma non-Hodgkin.
Le ricerche non pubblicate parrebbero infatti robuste, deriverebbero dall'Agricultural Health Study e sarebbero state condotte proprio da ricercatori del U.S. National Cancer Institute. Questi avrebbero indagato numerose famiglie di agricoltori americani esposte a glifosate senza trovare correlazione fra usi e tumori. Quando gli avvocati di Monsanto hanno chiesto esplicitamente a Blair se i dati non pubblicati mostrassero "no evidence of an association” (nessuna prova di associazione), l'epidemiologo avrebbe risposto "Correct" (Esatto).
La notizia, rilanciata da Reuters, è però rimbalzata tiepidamente sui social e di spazio sui media ne ha trovato davvero poco. Eppure il suo peso è tutto tranne che trascurabile. Aver tenuto nascosti degli studi a favore dell'erbicida ha di fatto tolto una componente fondamentale di valutazione e lo stesso Blair ha ammesso che forse il giudizio finale dello Iarc avrebbe potuto essere differente. Invece glifosate è stato inserito in Gruppo 2A, probabile cancerogeno per l'uomo, e da quel momento è iniziato l'assedio mediatico e politico al fine di bandirlo dai mercati.
Forse i 17 specialisti con i quali Blair ha condiviso un meeting lungo una settimana non avrebbero cambiato idea. Forse. Ma certamente non è stata data loro la possibilità di cambiarla, idea. E ciò è fatto di assoluta gravità. Questo perché, pur esistendo quei rapporti, lo Iarc valuta solo studi che siano stati pubblicati su riviste scientifiche. Quindi la scelta di non pubblicarli apre la porta a una ridda di ipotesi tutt'altro che simpatiche.
La causa che ha coinvolto Monsanto, occasione per Blair di fare "outing" circa le ricerche insabbiate, è attualmente in corso in California ed è stata voluta da 184 persone che avrebbero utilizzato le conclusioni dello Iarc per chiedere risarcimenti a Monsanto.
Le ammissioni dell'epidemiologo americano forse non cambieranno le conclusioni dello Iarc, il quale appare tetragono alle pressioni per riaprire il caso, ma potrebbero comunque giocare a favore del colosso di St. Louis per lo meno a livello legale. Al momento infatti Monsanto è impegnata nei tribunali americani a difendersi da accuse e richieste di danni.
In California un giudice avrebbe perfino stabilito che i prodotti a base di glifosate dovrebbero riportare la dicitura che possono causare il cancro.
Ora la questione si gioca in punta di fioretto dal punto di vista legale, dato che non vi sarebbero prove certe che gli studi siano stati insabbiati deliberatamente. Un dubbio che probabilmente nessuno si sarebbe posto se quelle ricerche avessero dimostrato il contrario.
Le prove della non cancerogenicità di glifosate sarebbero state infatti pronte a due anni di distanza dall'inizio del processo di valutazione dello Iarc, quindi il tempo c'era tutto, sebbene non fosse ancora ufficiale la decisione che tale valutazione sarebbe avvenuta. Per giustificare la mancata pubblicazione il National Cancer Institute ha lamentato una mancanza di spazio editoriale, anche perché gli studi erano molto corposi e ricchi di dati. Ottima ragione semmai per trovarli, quegli spazi.
E così è andata a finire come ben si sa. Lo Iarc ha concluso che glifosate sarebbe un probabile cancerogeno sull'uomo basandosi su "limited evidence" (prove limitate) e sicuramente cancerogeno su animali di laboratorio in base a “sufficient evidence” (prove sufficienti). Nello specifico, le "limited evidence" sarebbero state sulla “positive association” (associazione positiva) ravvisata fra glifosate e un tipo di cancro noto come linfoma non-Hodgkin. Gli studi lasciati a languire nei cassetti avrebbero controbilanciato proprio quelle "limited evidence", le quali hanno invece avuto campo libero nella decisione finale dello Iarc.
Nel frattempo si è assistito a diverse restrizioni di impiego dell'erbicida e a demagogici proclami politici di rendere l'Italia un'area "glyphosate free". Un danno che sta iniziando a mostrare tutto il proprio peso a partire dai diserbi extra-agricoli come quelli delle aree urbane, dove la caduta di glifosate ha aperto a una serie di problematiche tecniche ed economiche di non poco conto. Figuriamoci cosa accadrebbe il giorno in cui quel divieto dovesse ricadere sugli usi agricoli, una su tutte la semina su sodo.
Alla luce di quanto sopra sarebbe per lo meno opportuno riaprire la monografia Iarc, costruita lavorando su formulati che oggi non esistono più (quelli con le ammine di sego) e su dati incompleti e contrastanti sul piano epidemiologico. E sarebbe ancor più opportuno che stampa e web dessero risalto anche a notizie come queste, anziché privilegiare ogni tipo di analisi, più o meno attendibile, che troverebbe glifosate oggi nel pane, domani nella birra e dopodomani nel cotone o nelle urine, trasferendo alla popolazione l'idea di essere tutti in pericolo.
Un pericolo il quale, stando a quanto dichiarato sotto giuramento da Aaron Blair, molto probabilmente proprio non c'è.
Leggi l'articolo originale su Reuters