Quale sarà l'evoluzione della battaglia del grano, il conflitto nel conflitto fra Russia e Ucraina, che ha visto per la prima volta dopo dodici mesi il mancato rinnovo dell'accordo per esportare i cereali dai porti del Mar Nero e che rischia di aggravare il bilancio delle Nazioni maggiormente esposte all'insicurezza alimentare?
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È difficile dare una risposta, in quanto, seppure il rinnovo della Black Sea Initiative non fosse così scontato e, anzi, secondo alcuni esperti abbastanza lontano vista la spinta della controffensiva ucraina, il rischio di un prolungato mancato accordo sta aprendo scenari di scarsa serenità.
Immediatamente le tensioni sui listini si sono riaccese, anche se in misura inferiore rispetto alle fiammate vissute nel 2022, con boom dei prezzi rilevanti nel giro di 24 ore. Cosa significa, questo? Molto probabilmente la risposta tiepida evidenzia che il mercato non crede al fatto che il mancato accordo sia definitivo.
Nelle ultime settimane, tuttavia, abbiamo assistito ad altri avvenimenti connessi a una delle colture maggiormente consumate nel pianeta. Il Summit fra Federazione Russa e Stati Africani, nei giorni scorsi a San Pietroburgo, ha messo in luce una certa freddezza da parte del continente africano nei confronti di Mosca. Eppure, nell'occasione Vladimir Putin ha dichiarato che avrebbe regalato il grano all'Africa. Per quale motivo? Innanzitutto, per lanciare un messaggio al proprio interno. Il raccolto 2023 in Russia sembra essere particolarmente abbondante (la campagna è ancora in corso) e una sovrapproduzione in crescita del 22,4% rispetto all'annata precedente potrebbe provocare una flessione dei prezzi. Una dinamica sicuramente non particolarmente gradita agli agricoltori, i quali dal commercio di grano traggono entrate consistenti, avendo la Russia un tasso di autoapprovvigionamento pari al 202%. Non dimentichiamo che la Russia produce l'11% del grano mondiale, ma il suo export pesa per il 22% di tutti gli scambi internazionali di grano.
Sul piano dell'immagine, minacciare di distruggere il grano e bombardare i silos di cereali nei porti ucraini appare una soluzione alquanto suicida, anche in termini di immagine. Soprattutto a ridosso del Food Systems Summit di Roma, che pochi giorni fa ha denunciato il rischio per i Paesi più poveri di una maggiore insicurezza alimentare, causata dalla sospensione dell'accordo sul grano. E anche dopo gli appelli del Papa e di alcuni capi di Stato.
Sul mancato accordo del grano pesa anche l'incognita cinese, che forse non è poi tanto oscura. La posizione di Pechino, pur senza condannare l'atteggiamento della Russia, è stata di un auspicio al rinnovo dell'intesa, proprio per evitare interruzioni alle forniture di grano. In questo caso, Pechino è preoccupata di vedersi ridurre le importazioni dall'area, visto che con oltre il 24% dei ritiri di cereali, la Cina è il primo Paese a beneficiare dell'export ucraino nel mondo. E parliamo di un Paese che non è proprio in cima alla lista di quelli più esposti all'insicurezza alimentare.
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Qualora la Cina non fosse adeguatamente rifornita per mantenere elevati i propri stock, cosa accadrebbe? Si rivolgerebbe alla Russia per gli acquisti? Se sì, a quali prezzi? A quelli di mercato oppure si tratterebbe di prezzi scontati, per soddisfare Xi Jinping? E se la Cina pretendesse una quota di grano addirittura gratuita, vista l'offerta di Putin di grano a prezzo zero ai Paesi dell'Africa?
Incognite che per ora restano senza risposta, ma che denunciano la fragilità della situazione e il fatto che, in caso di guerra, a farne le spese sono indirettamente i Paesi più poveri.
Ecco che forse operare per una cooperazione che sia effettivamente occasione di crescita per i Paesi più svantaggiati, così da migliorare l'autosufficienza alimentare e la redditività su scala locale, potrebbe dare ossigeno a chi risulta più esposto all'insicurezza alimentare. Cominciamo per favore dalla difesa dei più deboli. E chiudiamo un conflitto insensato, che sta pesando in maniera eccessiva sull'economia mondiale, sui prezzi internazionali del grano e sulle popolazioni più fragili.