Più severi del Pan, dichiarano orgogliosamente a Trento tramite un comunicato stampa della Provincia autonoma in cui si ufficializza la firma dell'intesa raggiunta sulle limitazioni all'uso degli agrofarmaci. Un orgoglio che lascia perplessi, sapendo bene quanto il Pan sia già di per sé abbastanza penalizzante verso chi debba proteggere oggi le proprie colture. Basti pensare alle progressive riduzioni degli ettari trattabili con glifosate, terbutilazina e oxadiazion, i quali entro tre anni non potranno più essere applicati oltre il 50% delle superfici aziendali. E il restante 50%? Non è problema di chi scrive le regole, a quanto pare.
Intanto in risaia, secondo la Regione Piemonte, si ritoccano verso il basso le dosi di oxadiazon, specialmente nelle risaie sommerse, come pure si pongono limiti numerici ai trattamenti con prodotti a base di triciclazolo e azoxystrobin contro il Brusone. Le analisi delle acque non lasciano dubbi. Le importazioni crescenti di riso cambogiano nemmeno.

Ora in Trentino si firma "un patto per allontanare la chimica dai frutteti e vigneti del Trentino e per aumentare ulteriormente la qualità dei suoi prodotti". Le firme sono quelle degli assessori all'Agricoltura Michele Dallapiccola, alla Salute Luca Zeni e all'Ambiente Mauro Gilmozzi, mentre l'obiettivo è condiviso proprio da Dallapiccola:
"Il regolamento – spiega l'assessore – prescriverà misure idonee a mitigare i rischi d'inquinamento e a tutelare aree specifiche del territorio, definirà non solo orari e distanze dei trattamenti ma tradurrà sul campo, grazie anche al protocollo d'intesa oggi sottoscritto, l'impegno dei produttori ad attivare forme permanenti di collaborazione al fine di sviluppare, promuovere ed intensificare la ricerca applicata per ridurre ulteriormente gli impatti ambientali e sociali connessi all'utilizzo dei prodotti fitosanitari, attraverso mezzi alternativi anche innovativi, riducendo dosi e principi attivi, utilizzando tecniche e attrezzature in grado di ridurre al minimo la dispersione nell'ambiente".

Riducendo dosi e principi attivi: una frase che cozza con i più sani precetti di lotta alle resistenze, per esempio, fenomeno questo in crescita anche e soprattutto grazie alla falcidia delle sostanze attive dovuta alla revisione europea (e questa passi), ma anche da disciplinari di produzione che fra le molecole rimaste si permettono pure di fare la lista della spesa, riducendo ulteriormente le armi disponibili. Il tutto, scontrandosi con quanto avviene al di fuori dei confini italici, ove pare non attecchisca facilmente quel criterio di esclusione che tanto piace agli integralisti nostrani.

Interessante poi, sempre nelle dichiarazioni dell'assessore trentino, anche la volontà di stabilire orari per i trattamenti, forse dimenticando quanto accaduto nel 2014, proprio in Trentino, quando in primavera una sola pioggia non controllata - anche e soprattutto per motivi di ristrettezza della finestra temporale utile a trattare - causò poi una rincorsa alle patologie che ottenne solo risultati parziali. Già risulta infatti difficile essere tempestivi dopo una pioggia, rischiando spesso di arrivare lunghi e poi dover moltiplicare i trattamenti per recuperare. Mettiamoci anche delle fasce orarie ristrette d'ufficio e poi in campagna possiamo mandarci i cittadini con gli ombrelli aperti per non fare bagnare le piante.
Sulle "distanze" vi sarebbe poi da interrogarsi sull'annosa questione se in quel luogo vi fossero prima frutteti e vigneti, oppure le case. Perché è decisamente bizzarro che l'espansione edilizia che ha martoriato e ridotto le superfici coltivabili (e territorio e paesaggio) influisca oggi anche sulla possibilità di difendere pure le superfici agricole rimaste. Superfici dalle quali, ovviamente, va estratto oggi molto di più che nel passato, proprio per ottemperare alla contemporanea riduzione delle Sau e all'aumento di popolazione.

Assolutamente condivisibile invece l'uso di tecniche e di attrezzature più moderne, tali da minimizzare per esempio la deriva. Ricordando però una cosa: a lamentarsi dei trattamenti nei campi, a premere perché si leghino ulteriormente le mani agli agricoltori, sono proprio quegli stessi cittadini che grazie all'agricoltura moderna si sono abituati a mangiare tre volte al giorno. E pure bene. Cittadini che non si sono forse nemmeno accorti che nel frattempo il ministero dell'Agricoltura viene convertito in ministero dell'Agroalimentare, seguendo quel preciso piano di smantellamento dell'agricoltura nazionale ormai in atto da anni per mano di una classe politica tradizionalmente prona all'immagine pubblica, al consenso elettorale e agli interessi di lobby industrial-alimentari ben più potenti di quelle agricole. Uno smantellamento, quello agricolo nostrano, dovuto alla palese convenienza di convertire l'Italia da Paese "contadino", produttore di cibi locali ad alto valore aggiunto, a Paese di trasformatori ed esportatori di cibi originati dalla trasformazione di materie prime importate dall'estero.
Questo ovviamente finché all'estero non capiranno che a farsi da soli i "nostri" prodotti sono bravi pure loro. Tanto, sole, terra e competenze agronomiche non pare siano più fattori irrinunciabili per poter affermare di vendere cibi di alta qualità. Per chi non ci crede, vale ricordare i dati sull'olio forniti da Ismea per un anno "standard", ovvero quello per il quale l'Italia produce 463 mila tonnellate di olio, ne esporta 386 mila e ne importa 482 mila. Cioè più di quanto ne abbia prodotto. Per quale arcana ragione, quindi, si dovrebbe mai investire in agricoltura nazionale, quando basta comprare all'estero e poi imbottigliare italiano? Accà nisciun' è fesso, si suol dire infatti. Dimenticando però che fessi non lo sono nemmeno i consumatori stranieri, i quali potrebbero presto rompersi le scatole di consumare prodotti che dell'Italia han visto per lo più gli stabilimenti e i processi industriali.

In linea però con questo progetto agghiacciante, l'Italia vuole invece apparire più verde dei verdi, tra Pan, Psr e loro superamenti non richiesti, tratteggiando un Paese il cui popolo e i cui amministratori guardano agli agricoltori e agli agrofarmaci non come ai soldati e alle armi che difendono i nostri pasti (e il nostro export), bensì come inquinatori di cui interdire  sempre più le attività. E se non ce la fanno? Affari loro...

In tale scenario, ormai chiaro e irreversibile, non resta che sollecitare i suddetti agricoltori a cercare nuove fonti di reddito, che so, nel turismo facendo i bagnini o gli istruttori di sci, oppure nell'alberghiero come camerieri, o nella ristorazione come cuochi o, perché no, fra i loro ex-frutteti in veste di guardie ecologiche.
Perché con l'aria che tira continuare a fare un mestiere odiato, vessato, imbavagliato e incaprettato come quello dell'agricoltore, non pare proprio valga più la pena.