Per un'ironia della storia a farla finire sarebbe un leader conservatore e non una massa marciante di contestatori no-global. Il presidente americano Donald Trump aveva il preciso obiettivo di riequilibrare la bilancia commerciale del suo paese, che alla sua elezione segnava un deficit di 687 miliardi di dollari (di cui oltre la metà con la Cina).
Dal 2018 vi è stata indubbiamente nel mondo un'inversione di tendenza: le spinte protezionistiche hanno prevalso su quelle di liberalizzazione del commercio. Di fatto vi è stato allora un rallentamento della crescita globale, che si è poi conclamato con la pandemia Covid-19.
Qualche settimana fa il segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, ha dichiarato che il mondo, nonostante l'abbondanza di cibo disponibile, è sull'orlo della peggiore crisi alimentare degli ultimi 50 anni. E questo soprattutto per effetto delle spinte protezionistiche. Quest'anno, dopo la crisi pandemica, 50 milioni di persone rischiano di cadere in condizioni di estrema povertà, quindi di aggiungersi alla già numerosa lista di chi soffre la fame (820 milioni di persone, 1 su 9 in rapporto agli abitanti totali del pianeta; per capirci: 1 su 3 è invece sovrappeso o obeso).
Chi scrive, con un mai smentito passato da (moderato) no global si chiede: potrà esistere una via di mezzo? Si potranno difendere le produzioni di una nazione, l'occupazione, l'ambiente, la biodiversità in un contesto di sereno e sostenibile sviluppo economico globale? Perché non bisogna dimenticare che mai come negli ultimi vent'anni il mondo è cresciuto, anche nelle sue parti geografiche una volta più dimenticate e neglette, liberando dalla povertà miliardi di persone.
Di converso si profila però una crisi ambientale che par sempre più imminente. Il grande dilemma attanaglia anche la nostra Unione europea – che dovrà decidere "cosa fare da grande", sempre che ci arrivi (e noi glielo auguriamo di cuore).
Il momento è topico e oltre alla soluzione delle emergenze bisognerà capire che cosa fare nel futuro per quanto riguarda il commercio internazionale. Qui si raccomanda grande attenzione soprattutto per gli accordi commerciali multilaterali, "concepiti per creare migliori opportunità di scambi e superare le barriere commerciali".
L'Unione europea non deve dimenticare che oltre a essere un grande esportatore è anche il più appetito mercato mondiale. E che spesso l'agricoltura può fare le spese degli accordi che privilegiano il commercio di beni industriali.
E' l'esempio, tanto per stare sulla cronaca, degli accordi di libero scambio in corso con l'Australia e la Nuova Zelanda, paesi (non certo arretrati e a rischio di carestia) con cui l'Ue gode di un grande saldo positivo, ma non per quanto riguarda i prodotti agricoli.
Noi sappiamo però che preservare l'agricoltura ha un valore ben maggiore di quello messo in luce dalle più grossolane statistiche economiche. Dove non passano le merci passeranno gli eserciti, diceva a buona ragione un economista liberale francese. Un mondo pacifico, ma anche equo, non deve però essere un'utopia.