L’interesse di Van Gogh, figlio di un pastore protestante, per l’agricoltura e la vita contadina, è viscerale. Nel 1881, quando Vincent ha 28 anni, scrive al fratello Theo: “Devo osservare e disegnare tutto ciò che fa parte della vita di un contadino, come molti altri hanno fatto e stanno facendo”. Uno dei suoi riferimenti è il pittore francese Jean-François Millet, al quale guarderà sempre con ammirazione, tanto da ricomprenderlo – come si legge in una lettera indirizzata al fratello Theo – fra gli “insuperabili”, insieme a Delacroix e a Meissonier.
La mostra di Palazzo Reale attinge abbondantemente dal museo Kröller Muller di Otterlo e si apre con uno dei numerosi autoritratti dell’artista nato in Olanda, a Zundert, nel 1853 e morto nel 1890 per le conseguenze di un colpo di pistola che il pittore si sparò al petto. Van Gogh sceglie di rappresentarsi in abiti borghesi, appena approdato a Parigi, allora capitale mondiale e Ville Lumière sognata da artisti, potenti, ballerine, studiosi, nobili e benestanti di ogni parte del mondo.
Ma di quella che era la New York dell’epoca, Van Gogh mostra una forte attenzione verso i mulini a vento, i campi di fiori, le case che danno sui campi. Una Parigi “agricola”, per così dire.
L’agricoltura significa davvero fatica, sudore. Siamo in un’epoca in cui la meccanizzazione agricola è ancora un miraggio e i primi risultati (si pensi alla pesantissima locomobile) devono essere perfezionati in maniera massiccia.
La prima parte della mostra vede un Van Gogh disegnatore: contadini nelle loro mansioni, con zoccoli enormi e intenti a seminare, spigolare, zappare, talvolta anche a riposarsi delle fatiche di un lavoro gravoso, senza orari e fortemente condizionato dal fattore meteo.
Fra i quadri (una quindicina per tutta la mostra) spicca la tela del 1885, Mangiatori di patate, dove i volti dei contadini seduti a tavola hanno lo stesso colore terreo dell’ortaggio di provenienza americana e che costituisce una delle diete più costanti della povera gente.
C’è spazio anche per i ritratti, famosi (come il postino Roulin, grande amico di Van Gogh, ritratto durante il soggiorno dell’artista nel sud della Francia) o meno conosciuti, come quello di Ginoux, fieramente francese nel suo sguardo altero.
La sala con le nature morte avvicenda le cromie scure del primo periodo con quelle ricche di colore, pastose, dopo la scoperta degli Impressionisti e dell’arte giapponese, altro modello al quale l’olandese attingerà nella sua breve vita (è morto appena 37enne).
La mostra termina con i paesaggi, fra ritratti di campagne, campi di lavanda a ridosso della città, giardini, con la luce della Francia meridionale fra Arles, Saint-Remy, Saintes-Maries-de-la-Mer, infine Auvers-sur- Oise, dove terminerà la propria vita, condotta fra miseria e ospedali psichiatrici.
Meritano un cenno La vigna verde, dipinto nella seconda metà del 1888, la Veduta di Saintes-Maries-de-la-Mer, di qualche mese precedente, in cui l’influenza di Cézanne è piuttosto evidente, e l’ultimo quadro, Paesaggio con covoni e luna, una sorta di testamento del pittore, in cui i colori non trovano una corrispondenza esatta con la realtà.
Van Gogh. L’uomo e la terra
Milano, Palazzo Reale, fino all’8 marzo
www.vangoghmilano.it
Orari: lunedì ore 14,30-19,30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica ore 9,30-19,30; giovedì e sabato ore 9,30-22,30.
Biglietti: 12€ intero, 10€ ridotto (per entrambi audioguida gratuita).