E se il pasto principale rimane il pranzo, seppure per una percentuale inferiore di persone (dal 78,2% al 68%), si fa più colazione a casa (dal 66,8% del 1993 all’82% del 2012) e si mangia di più fuori casa, non disdegnando però di mangiare sul posto di lavoro (dal 4,5% al 7,2%, con punte che sfiorano il 10 per cento nella fascia di età fra 25 e 34 anni), magari la “schiscetta” preparata a casa.
Così dicono le tendenze messe in evidenza dall’Istat nella ricerca sugli stili di vita degli italiani negli ultimi 20 anni, dal 1993 al 2012.
È un’Italia che va sempre più di corsa, che balla sui ritmi accelerati del lavoro e che cerca di riempire il tempo libero con gli hobby più diversi. Un Paese che si concentra più sui cooking show televisivi e concede meno spazio alla convivialità rispetto ai primi anni Novanta.
Ci concentriamo sugli aspetti salutistici e ne parliamo con Debora Viviani, docente di Sociologia, componente del Centro ricerche sociali e dell’Osservatorio sui consumi dell’Università di Verona, che nel mese di dicembre ha dato alle stampe un saggio dal titolo “Dalla tradizione ai Functional Foods. Il caso Barilla”, pubblicato su MICRO & MACRO Marketing, rivista de Il Mulino.
Debora Viviani sta attualmente lavorando ad un progetto su cibo, benessere e marketing che coinvolgerà studiosi di altre Università.
Innanzitutto, che cosa sono i "functional foods"?
“In italiano si chiamano alimenti funzionali e sono quei cibi che fanno parte di una normale dieta, che portano benefici per la salute, perché riducono il sorgere di alcune malattie croniche o perché migliorano determinate funzioni fisiologiche dell’organismo. Perlomeno questo è ciò che promuovono”.
Dove nasce il modello dei functional foods e che diffusione hanno?
“Vengono creati alla fine degli anni Ottanta in Giappone, per far fronte ad una spesa sanitaria in continua crescita. Gli Stati Uniti e l’Europa rappresentano oggi i mercati più importanti e dinamici, con valori che si aggirano intorno ai 6 miliardi di dollari per gli Usa e i 15 miliardi in Europa. I functional foods si sviluppano in parallelo alla trasformazione del concetto di salute”.
L’Italia dove si colloca?
“In Italia il mercato degli alimenti funzionali non raggiunge un volume pari a quello di altri Paesi, in parte per la diffusione della dieta mediterranea come valore salutistico che identifica già di per sé la naturalità del cibo e il mangiare italiano. Si tratta però di un mercato in crescita, con un trend positivo e che solo in parte è stato rallentato dalla crisi economica”.
Quali sono i functional foods più diffusi?
“Pensiamo ai latticini, agli yogurt con l’aggiunta di probiotici, ai cibi con una presenza di omega3 potenziata. Ma sul mercato troviamo anche merendine, succhi e snack, con l’aggiunta di sostanze che dovrebbero prevenire malessere e agevolare benessere del corpo. Si stanno radicando velocemente, al punto tale che sul mercato possiamo trovare questa tipologia di alimenti anche per gli animali domestici”.
È un po’ una logica comune ai prodotti di bellezza…
“Esattamente. L’idea di fondo è che il concetto di salute non è più soltanto uno stato di non malattia, come un tempo, ma ha assunto un’accezione più ampia a livello emotivo e psicologico, oltre che fisico. Questo diventa anche la chiave di lettura del processo di diffusione delle palestre, delle spa, delle beauty farm”.
Chi sono i principali acquirenti?
“I giovani, uomini o donne, con una cultura e un reddito medio-alti e una spiccata attenzione verso il benessere”.
Qual è il messaggio predominante nei function foods?
“Direi che è: il beneficio, non il prodotto. Sottolineato anche dal packaging, essenziale, elegante, caratterizzato da messaggi positivi. Con i functional foods siamo entrati a piedi pari nel marketing postmoderno, dove si vendono innanzitutto valori, concetti e idee. A livello di strategia di marketing e comunicazione, la pubblicità di questi prodotti si trova sul web, piuttosto che sulla carta stampata o in televisione”.