di Enrico Sermonti

 

Una delle più comuni lamentele dell'uomo comune, miserabile o felice, povero o potente che sia, è quello sull'incostanza del clima. Gli inglesi, che hanno un attento rispetto della privacy, ne fanno un frequente oggetto di conversazione perché il bello o cattivo tempo non sono un possesso o una qualità personale e nessuno si può risentire se diventano oggetto di discussione. Affermare: "Stamani c'era un sole magnifico ma adesso il cielo si sta coprendo", non può toccare suscettibilità. 

L'uomo, per la sua natura che lo porta sempre a cercare la responsabilità di eventi negativi, anche qui va cercare un responsabile, al di fuori del Padreterno al quale non possono essere mosse contestazioni. E i responsabili sono i più benestanti degli uomini, anche se, nella maggior parte dei casi si tratta di una colpa e non di un dolo. Sono gli uomini incoscienti del male che si fanno. Addirittura, in una immaginifica contabilità, si sono configurati crediti e debiti. Ci sono nazioni debitrici (le più "sviluppate") e nazioni creditrici (le altre).

Ma gli sbalzi di temperatura, anche se l'osservazione può apparire paradossale, sono fastidiosi ma anche preziosi, dato che ad essi è connesso il termometro della nostra intelligenza. 

Cosa vado sostenendo? Ho voglia di scherzare? Eppure non si tratta di una deduzione ma di una constatazione. I popoli meno "acculturati" sono proprio gli indigeni delle aree equatoriali o polari, dove la temperatura ha una relativa costanza. E questo, non solo perché la costanza della temperatura dà meno stimoli a industriarsi per difendersene, ma anche, io penso, per un fattore fisiologico. Penso che le cellule del cervello si giovino degli sbalzi di temperatura come se ne giova il suolo coltivato, che dal gelo e dalla aridità seguita dalla pioggia viene utilmente rimaneggiato. Chi vive tutto l'anno nei tucul o negli iglù, sempre seminudo o incappottato, è meno "arguto" di chi ogni anno passa dal pastrano ai calzoncini corti. Così chi vive con una pioggerellina quotidiana, come ai margini della foresta amazzonica, dove le piogge sono così regolari che quasi ci se ne potrebbe servire come orologio naturale, è meno "evoluto" di chi passa dalla siccità agli uragani. Cesare, Pericle, ma anche Confucio, hanno certamente avuto occasione di lamentarsi degli sbalzi di temperatura. 

Non ultimo tra i motivi per cui la madre del diritto è stata Roma è perché Roma è sorta nelle aree dove il clima non è favorevole. Piove d'inverno, quando d'acqua ce n'è sin troppa ed è secco d'estate, quando le colture agognerebbero l'umidità. Per ottenere il prodotto, il terreno va lavorato e curato e, in molti casi, irrigato. Diremmo: "apparecchiato". Chi ha dovuto faticare a apparecchiarlo non può lasciarlo a disposizione di tutti. E' nato così il diritto di proprietà, che è uno dei fondamenti del diritto. Al nord, invece, dove la pioggia che serve è sempre a disposizione, la proprietà del suolo non è molto importante e le regole del vivere civile erano e sono soprattutto indirizzate all'uso e non al possesso del suolo. 

Gli inglesi, per i quali il comportamento del clima è complessivamente favorevole, ancora oggi, non hanno un codice ma un "digesto", ovvero una raccolta di leggi, perché, da loro, non è, come da noi, che la consuetudine è una delle fonti del diritto. Da loro la consuetudine diventa diritto. 

Il clima ha le sue regole né si può pensare di imporgliele con le nostre leggi. Ma, da quando è nata la "credenza" dell'effetto serra, ovvero da quando l'uomo ha pensato di influire con i suoi eccessi sulle condizioni del clima, ecco che la legge ha finito per occuparsi anche del clima. 

La terra è enorme e l'uomo è minuscolo. Per l'uomo la terra emersa è sempre "corrugata" ma, per chi la guardasse da lontano apparirebbe liscia come una palla di biliardo. L'Everest, che si erge maestoso ai nostri occhi, ha una altezza che è meno di un decimillesimo del diametro della terra (9 km contro 13.000). Se la nostra mano scivolasse su una terra impiccolita fino a 2, 3 metri di diametro, avrebbe l'impressione di carezzare una liscia palla di vetro.

Il diritto di sporcare un po' l'ambiente esiste purché non si ecceda e, d'altro canto, l'uomo si distingue dagli altri animali perché è l'unico (con alcune limitate eccezioni come, ad esempio, quella dei castori) a modificare a suo comodo l'ambiente in cui vive. Il che equivale a dire a sporcarlo. E' un prezzo da pagare allo "sviluppo". 

E qui mi sia permessa una parentesi, per un chiarimento. In occidente consideriamo lo sviluppo come un obiettivo irrinunciabile. La Fao lo considerava così importante da considerarlo l'unica misura della civilizzazione. In un primo tempo, per la Fao, i Paesi erano classificati developed o undeveloped countries. Poi ci fu una correzione dei termini. "Undeveloped" divenne "developing", perché non si concepiva che un Paese non tendesse a svilupparsi. Ma io ricordo un "saggio" indigeno africano (perché la saggezza non è nostra unica prerogativa), che mi diceva, ad un docente inglese, che lo sviluppo era estraneo alle loro aspirazioni, tanto che nei loro linguaggi non esisteva questo vocabolo, che doveva usare termini stranieri per parlarne (development, desarrollo) e che consideravano l'aspirarvi un atto negativo, una irriconoscenza verso il trascendentale.

Ho intitolato questa nota: "la legge e il clima", per configurare un assunto paradossale. Ma, evidentemente lo è solo per chi, come noi, è convinto che l'uomo sia un granello così "minuscolo" sulla faccia della terra che può solo essere spettatore dei cambiamenti ambientali. Chi è così "presuntuoso" da considerarsi protagonista di uno spettacolo del quale è solo ininfluente spettatore può sinceramente credere che di questo spettacolo sia uno degli autori. Ma ha, invece, solo battuto le mani al calar della tela.

 

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