Intendiamoci, non è che ora delle ricerche scientifiche non si debba più avere fiducia. Semplicemente è divenuto sempre più importante selezionare accuratamente le fonti bibliografiche quando si intraprendono discussioni su temi scientifici. A un occhio esperto salta infatti subito all'occhio una fallacia procedurale, o addirittura logica. Talvolta sono palesi perfino le intenzioni dei ricercatori di passare messaggi che di scientifico hanno davvero poco.
A partire dalle riviste stesse, alcune delle quali sono addirittura qualificabili come "predatory" e ogni tanto pure sanzionate per tale ragione. Tali riviste sono alla perenne caccia di autori particolarmente ambiziosi che smanino dalla voglia di pubblicare i propri lavori, indipendentemente dalla solidità dei lavori stessi. Un giro di denaro alquanto deprecabile, perché impatta direttamente la credibilità della scienza, soprattutto agli occhi dei cittadini meno avvezzi a masticarla.
Gli autori stessi possono inoltre essere suddivisi sommariamente in due categorie: quelli sconosciuti ai più, ovvero quelli che lavorano sodo nei laboratori e che pubblicano solo ricerche meticolose su riviste di un certo livello, magari aborrendo i palcoscenici mediatici cui preferiscono senz'ombra di dubbio i simposi scientifici. Cioè i contesti ove gli scienziati si confrontano fra loro senza troppi riflettori addosso. Oppure vi sono anche ricercatori che pare passino più tempo a rilasciare interviste che a lavorare, diffondendo lavori farlocchi di valore prossimo a zero da un punto di vista scientifico, ma potentissimi dal punto di vista mediatico.
E qui cominciano i problemi, perché di solito sono proprio questi "lavori" a finire su giornali, tv e internet, deflagrando infine nei social come vere e proprie bombe incendiarie. Spesso senza che ve ne sia alcun motivo concreto.
Fra i temi ricorrenti più gettonati in tal senso ricade glifosate, ormai accusato d'ogni nefandezza sanitaria e ambientale. Oltre a patire di correlazioni bizzarre, come quelle che lo vorrebbero causa di celiachia, autismo, Sla, distrofie, Alzheimer, Parkinson e chi più ne ha più ne metta, l'erbicida ha attratto le attenzioni di numerosi ricercatori anche su altri temi, come per esempio quello dell'epatologia, nella fattispecie la steatosi epatica non alcolica.
Tale patologia trova le proprie cause in un'alimentazione eccessivamente grassa e risulta spesso associata a sovrappeso e obesità. Nei pazienti vengono inoltre rilevati alti livelli ematici di trigliceridi e colesterolo e spesso tale patologia è correlata al diabete di tipo II. Tra le cause, oltre agli ovvi abusi alimentari, pare rientrino l'uso cronico di alcuni farmaci, ma anche squilibri ormonali. Poteva quindi entrarci glifosate in tali scenari? Certo che sì. Basta volerlo. Alcuni studi avrebbero infatti trovato una correlazione fra l'erbicida e tale patologia, il tutto basandosi sui tassi di escrezione di glifosate con le urine (lavori pubblicati).
Glifosate è infatti escreto con le urine per circa un terzo dell'ingerito e tali analisi fungono spesso da trampolino di lancio per chiunque voglia attaccare "scientificamente" il totem dell'agrochimica. I ricercatori avrebbero infatti rilevato concentrazioni più alte nelle urine delle persone malate, quindi avrebbero dedotto che potrebbe essere glifosate a causare la patologia del "fegato grasso".
In prima battuta potremmo anche pensare che i maggiori tassi di escrezione di glifosate possano essere l'effetto anziché la causa. Un organismo malato potrebbe benissimo patire di molteplici alterazioni che lo allontanano dallo stato fisiologico. In sostanza, a logica dovrebbe nascere spontanea la conclusione che i malati di steatosi epatica non alcolica espellano con le urine più glifosate semplicemente perché è il loro organismo a comportarsi così, non perché siano più esposti di altri all'erbicida. Altrimenti, chiunque abbia i medesimi livelli di esposizione nella propria cerchia familiare, di amicizie o di vicinato, dovrebbe essere malato pure lui. A parità di causa, infatti, non sarebbe tanto strano trovare anche parità di effetto. In assenza di sovrapposizione fra esposizione e patologia, bene sarebbe quindi astenersi dal voler trovare correlazioni a tutti i costi.
Ma pur lasciando correre tale aspetto, sono proprio le statistiche riportate nei lavori scientifici a far cadere ogni residuo dubbio su glifosate e sui suoi rapporti col fegato umano. A fornire una disamina dettagliata delle fallacie statistiche di tali lavori ha provveduto Pellegrino Conte, ordinario di Chimica agraria presso l'Università degli studi di Palermo, alla cui lettura fine si rimanda.
In sostanza, nei lavori pubblicati il margine di errore sarebbe più o meno pari ai valori di glifosate rilevati nelle urine. Difficile se non impossibile fare quindi comparazioni statistiche fra individui differenti se le oscillazioni dei dati sono così "ballerine" da assorbire la ipotizzata variabilità dei medesimi.
Nonostante ciò, questi studi sono stati pubblicati e circolano ormai liberamente sui social, venendo utilizzati come sempre accade quali mazze chiodate per gettare ulteriore benzina contro glifosate. Non si capisce bene per quale ragione i peer reviewer siano passati sopra a tali discrepanze. Né si comprende per quale ragione gli stessi autori di tali ricerche non abbiamo rinunciato a pubblicarle.
Resta il fatto che al deprecabile florilegio di pubblicazioni farlocche circolanti da tempo sull'erbicida si sono adesso aggiunte anche quelle sulle riviste di epatologia. Si attende ora la prossima "frontiera del sapere", in cui glifosate venga magari reputato causa di fratture ossee e calvizie.
"La tossicologia spiegata semplice" è la serie di articoli con cui AgroNotizie intende fornire ai propri lettori una chiave di lettura delle notizie allarmanti sul mondo agricolo in generale e su quello fitoiatrico in particolare.
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