Da questa emergerebbe in sostanza come glifosate non abbia incidenze sul profilo oncologico degli agricoltori utilizzatori rispetto ai colleghi non utilizzatori. Anzi, per i vari tumori considerati parrebbe proprio che per la quasi totalità di questi usare glifosate sia un fattore di riduzione del rischio rispetto ad altre pratiche di gestione delle infestanti.
Oggi si darà invece spazio alla metanalisi che le sarebbe stata contrapposta, cioè quella di Luoping Zhang et al., avente come titolo: "Exposure to Glyphosate-Based Herbicides and Risk for Non-Hodgkin Lymphoma: A Meta- Analysis and Supporting Evidence" (2019) Mutation research/Reviews in mutation research. Un lavoro accettato in data 5 febbraio 2019 e in stampa alla data attuale.
Secondo quest'ultima, al crescere dell'uso di glifosate aumenterebbe invece il rischio di sviluppare linfoma non-Hodgkin, ovvero quello per il quale Iarc ha classificato l'erbicida fra i "probabili cancerogeni" dando la stura a ogni causa legale attualmente in corso contro Monsanto.
Secondo Zhang, salendo con gli usi in campo il rischio aumenterebbe di uno strabiliante +41% e prima ancora che tale ricerca fosse pubblicata già ne circolava il contenuto quale prova provata che glifosate andrebbe bandito. Un primo punto, questo, che invita a notare le differenze rispetto a quanto avvenuto con il lavoro di Andreotti et al, il quale era pronto già da un paio di anni prima della fatidica monografia Iarc del 2015, ma di cui non si è saputo nulla fino all'autunno 2017. Della serie: se vi sono prove a discolpa vengono silenziate, se ne arrivano (forse) di colpevoliste, vengono divulgate ancor prima di essere condivise con la comunità scientifica. Un comportamento che purtroppo caratterizza l'operato di molti, troppi, ricercatori sedicenti indipendenti, fra cui diversi anche qui in Italia, come pure la pessima abitudine della stampa generalista fortemente spostata a favore del fronte colpevolista.
Non a caso, come pessimo risultato di tale deriva, sul britannico The Guardian nel volgere di pochi giorni la notizia veniva già rilanciata con il titolo: "Exposure to weed killing products increases risk of cancer by 41%. Evidence 'supports link' between exposures to glyphosate herbicides and increased risk for non-Hodgkin lymphoma". In italiano: "L'esposizione agli erbicidi aumenta il rischio di cancro del 41%. La prova "supporta il collegamento" tra esposizione a glifosate e aumento del rischio per linfoma non-Hodgkin".
Ciò ha creato un prevedibile e ampio consenso intorno alla ricerca svolta da Zhang et al., causando una fervida moltiplicazione della notizia su web e media. In sostanza, ora la gente ha ancora più paura di prima e lo studio precedente di Andreotti et al, già di per sé oscurato dalla maggioranza dei medesimi media, è stato schiacciato dalla metanalisi più recente.
Come sempre accade in tale contesto, è divenuto quindi necessario creare un contenuto in cui spiegare perché la metanalisi di Zhang non va presa affatto come oro colato. A partire proprio dalla percezione degli scenari stimolata dal gruppo di Zhang, il quale ha presentato la faccenda glifosate come un esempio di scienza divisa e di caso controverso. Nulla di più fuorviante: il consenso scientifico è per la quasi totalità a favore dell'erbicida, non essendovi Autorità di regolamentazione al mondo che non si sia espressa in modo contrario alla Iarc. Questa è di fatto rimasta sola ad affermare che glifosate è cancerogeno, supportata da diversi piccoli gruppi di ricerca che pare abbiano sviluppato contro glifosate una vera e propria ossessione. Cioè quelli che per esempio ignorano sistematicamente le inaccettabili ingerenze sul gruppo Iarc di Christopher Portier, all'epoca ben pagato consulente segreto degli studi legali che stavano preparando la class action contro Monsanto.
La metanalisi di Zhang et al.
Il gruppo di lavoro ha combinato i dati di diversi lavori già pubblicati, inclusa una parte di quelli di Andreotti et al, da loro selezionati peraltro in maniera relativamente arbitraria. Zhang et al hanno anche aggiunto alla parte dei dati da Andreotti et al. anche altri 5 lavori, escludendone 6 che a loro avviso riportavano dati ottenuti sugli stessi soggetti. Con un intervallo di confidenza al 95% (1,13-1,75), sarebbe stato ravvisato un aumento del rischio di sviluppare LNH a carico degli utilizzatori più fedeli di glifosate.Leggendo il numero parrebbe una strage. Al contrario, sapendo che il LNH ha un'incidenza molto bassa (1:5.000), ovvero 19 casi su 100mila abitanti in America, ciò equivale allo 0,019% di rischio di sviluppare tale tumore. Un aumento del 41%, anche se fosse attendibile il dato, porterebbe il rischio complessivo a 0,027%. Per contabilizzare cioè 8 casi in più di LNH si dovrebbero esporre sistematicamente ad alte dosi di glifosate ben 100mila persone. A patto ovviamente che quella percentuale incrementale sia attendibile, cosa che invece non pare affatto.
Tuttavia, questo non è l'unico problema del lavoro di Zhang et al. in quanto un aumento accertato del 41%, se anche consiste in soli 8 casi su 100 mila persone, potrebbe essere un dato accettabile, se non fosse che diversi istituti hanno evidenziato forti fallanze metodologiche nel lavoro stesso.
Una prima risposta al tam tam filo-abolizionista anti glifosate è per esempio giunta dal BFR , ovvero l'istituto tedesco per la valutazione del rischio, quello che ha valutato glifosate in sede di rinnovo europeo accendendo per l'erbicida la luce verde. Secondo il BFR la metanalisi patirebbe di un alto grado di incertezza sulla correlazione glifosate-LNH, a partire dalla molteplicità dei fattori confondenti legati alle attività agricole, come pure viene contestata l'usuale equivalenza fatta fra la sostanza attiva e i formulati utilizzati. Bene peraltro premettere che in Andreotti et al. tali fattori confondenti sono stati presi in considerazione, tra cui l'età, il sesso, la scolarizzazione, l'essere o essere stato fumatore, la familiarità per i tumori e l'uso di altre sostanze attive.
Al di là però della posizione del BFR, a carico dei recenti lavori "colpevolisti" vi sarebbero pure alcune valutazioni di tipo squisitamente statistico. Tema sul quale si è preferito lasciare la parola a un esperto di tali elaborazioni, ovvero Sergio Saia, assegnista di ricerca presso il Centro di ricerca cerealicoltura e colture industriali (CREA - CI, sede di Vercelli), docente a contratto di orticoltura presso il Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e ambientali dell'Università Politecnica delle Marche e docente presso la prossima scuola estiva (26-30 agosto 2019) in "Statistical analysis of spatial data in agro-environmental research" di Como.
Dr. Saia, a Suo avviso quali sono i primi commenti a caldo che si possono fare dal punto di vista metodologico sulla metanalisi di Zhang et al?
"Nei due lavori citati (Andreotti et al. e Zhang et al.) vanno notati tre aspetti cruciali, la prima di carattere pratico, gli altri due a carattere statistico: la prima è che vengono studiati i prodotti commerciali, non le molecole. Inoltre è interessante cosa gli stessi autori dicono a tal proposito, ovvero 'but not with active ingredients within these groups, after adjusting for exposure to other pesticides', in quanto i prodotti commerciali contengono appunto diverse molecole e non semplicemente una per volta. Per giunta, non è affatto detto che quantità usate siano traducibili in modo diretto in esposizione per l'operatore. I consumatori più frequenti sono spesso i più professionali e meglio attrezzati, il che riduce la possibilità di rischio a parità di quantità utilizzata".
E gli altri due aspetti?
"Gli RR, ovvero i rischi relativi, sono sempre bassi. Mai che si vedano valori inferiori degli intervalli di confidenza (CI) che si posizionino sopra 1.8 o 2. Sono sempre prossimi all'unità. Ovviamente un RR compreso tra 1 e 2 è da considerarsi valido, purché abbia un CI che non si sovrappone all'unità. Se però questo viene raffrontato alla reale prevalenza e incidenza di un evento già di per sé raro, può rappresentare un valore estremamente piccolo di casi. Il problema con gli eventi rari è infatti stabilire quali siano accaduti per casualità e quali per la causa investigata, in questo caso glifosate".
Quindi stiamo ragionando di eventi che già di per sé sono così rari che qualsiasi indagine rischia di essere fallace se applicata a una popolazione molto ristretta, come quella degli agricoltori. Specialmente se tali indagini statistiche non siano perfette dal punto di vista metodologico, cosa che pare emergere per entrambe le ricerche…
"Entrambi i lavori hanno falle che vanno comunque evidenziate. Per esempio, Andreotti et al. studia un'ampia casistica, tuttavia nella divisione dei rischi a 5 anni e 20 anni usa raggruppamenti diversi (i quartili nel primo caso e i terzili nel secondo) e poi li mette a confronto. Purtroppo, il terzile superiore per i rischi a 20 anni include circa 2 terzi del terzo quartile, più l'intero quarto quartile, dei rischi a 5 anni. Ciò implica che i rischi non sono confrontabili. Ammettere il solo valore a 20 anni come rischio di interesse non è di per sé errato, tuttavia nell'analisi dell'unica patologia - che è inferiore alla soglia convenzionale del 5% di rigetto dell'ipotesi nulla ed è pari soltanto al 4% - il trend è del tutto poco chiaro, mostrando i primi due quartili di esposizione in cui non esiste alcuna associazione tra esposizione e patologia, mentre nel terzo tale associazione parrebbe evidente sebbene in maniera molto debole. Di fatto, se glifosate avesse davvero un'influenza, un trend sempre in crescita dal primo al secondo e dal secondo terzile sarebbe stato evidente. Invece così non pare ed escludo che anche nel terzo terzile si raggiunga la dose minima per rilevare un danno, considerando l'ampiezza notevole di detto terzile".
Pare però che alla fin fine gli stessi ricercatori siano stati messi in difficoltà proprio dall'esiguità dei casi.
"Infatti tali problemi non sono realmente di tipo metodologico, visto che gli stessi autori han chiarito che la divisione in terzili a 20 anni e quartili a 5 anni è stata fatta proprio per l'estrema rarità dei casi, tuttavia avrebbero dovuto dividere in terzili anche il rischio a 5 anni e riportare la medesima analisi fatta in quartili. In soldoni, gli stessi Andreotti et al. sono molto cauti nell'affermare che ci sia associazione proprio perché questa è ben poco evidente. E recentemente la statistica su scala mondiale sta iniziando a dubitare dell'uso della percentuale di rigetto di una ipotesi per accertarsi che qualcosa valga. In particolare, una delle richieste più frequenti è che l'incertezza di non sbagliare - e in effetti quella percentuale pare dire qualcos'altro di molto più sottile - scenda al di sotto dell'1%, altrimenti il rischio di stare sbagliando nel fare una affermazione è molto, molto elevato".
E in tal senso per Andreotti et al. Per Zhang cosa è possibile affermare?
"In Zhang et al. i problemi metodologici sono di tipologia analoga, ma più gravi. Gli autori scelgono infatti di raccogliere da Andreotti et al. e da altri 5 lavori le classi di maggiore esposizione, tuttavia non si curano di quale sia la classe di maggiore esposizione e ovviamente scelgono quella che Andreotti riporta come quartile. Di fatto, però, anche eventuali altri percentili sarebbero da intendersi come 'classi di maggiore esposizione', incluso il terzile o un eventuale decile. L'ironia della cosa è che gli stessi Andreotti et al. han dichiarato nel proprio lavoro di essere stati costretti a dividere una serie in quartili e l'altra in terzili perché l'evento era troppo raro. Ciò, peraltro, continua a collidere con il fatto che il risultato si osservi nel terzile superiore – riferito alla finestra temporale di 20 anni – mentre nel quartile superiore, riferito a 5 anni, tale fatto invece non si osservi. Per fare un esempio, sarebbe come sostenere che chi mangia mediamente di più ingrassa di meno di chi mangia mediamente di meno. Il problema è quindi molto controverso".
In effetti, sarebbe il sogno di molti ingrassare di meno pur mangiando di più, ma ciò collide con la fisiologia e perfino con la termodinamica…
"Esattamente. Peraltro, Zhang et al. presentano comunque un altro problema metodologico abbastanza rilevante: nella loro ricerca su 11 lavori trovati ne tengono come validi 5 e ne escludono 6, portando come giustificazione il fatto che parte dei 6 lavori scartati avrebbe dati in comune con i 5 inclusi. Tuttavia non replicano l'analisi includendo i 6 scartati e scartando i 5 considerati validi, al fine di dimostrare che il risultato sia davvero lo stesso".
Può spiegare meglio ai non esperti di statistica cosa ciò significhi?
"I fenomeni sociali, come le patologie ma anche il peso o l'altezza delle persone, l'attitudine a compiere un crimine, non sono costanti nella popolazione. Tale incostanza dipende da tutti i fattori che controllano un fenomeno. Il caso classico è la distribuzione dei pesi nei bambini di una certa età. Immaginiamo di 5 anni di età. Se raccogliamo i pesi di tutti i bambini di 5 anni di una grande città, osserveremo che i pesi vanno circa da 14 a 24 chilogrammi. La prima osservazione è che il peso varia molto. La ragione di questa variazione è molteplice e dipende da predisposizione genetica, sesso, alimentazione, salute, etc. Se volessimo quindi studiare l'effetto dell'alimentazione sui bambini dovremmo dividerli in classi omogenee, ad esempio fra maschi e femmine: i due gruppi infatti sono già costituzionalmente diversi nel peso e una diversa alimentazione verrebbe confusa dal differente sesso. Il primo passo è quindi avere categorie omogenee e solo poi valutare all'interno di ciascuna di queste la differenza tra quelli che mangiano di più, magari per chilo di peso corporeo e per unità di attività fisica, e quelli che mangiano di meno e quindi cercare di comprendere se l'alimentazione ha una importanza nel determinare il peso. Tuttavia, non basta nemmeno confrontare le medie di peso dei bambini che mangiano di più con quelle che mangiano di meno, bensì vanno studiate anche le distribuzioni. Infatti, in ogni gruppo ci saranno bambini più pesanti e bambini meno pesanti ed è importante che i meno pesanti del gruppo 'più pesanti' siano più pesanti dei più pesanti del gruppo dei 'meno pesanti' (perdonate il gioco di parole). Un destino analogo deve subire l'entità dell'alimentazione, altrimenti non è possibile postulare che l'alimentazione - ribadiamo, per unità di peso corporeo e di attività fisica - giochi un ruolo nel determinare il peso. Se non è possibile affermare ciò, molto probabilmente la cosa è dovuta al fatto che il peso dipende da altre cose. Per esempio, sarebbe come confrontare il peso dei Pigmei alimentati male con quello dei Watussi alimentati bene".
Cosa potrebbe in sostanza alterare la valutazione in tal caso?
"Le eventuali differenze potrebbero dipendere sì dall'alimentazione, ma anche dalla natura genetica e non è quindi possibile attribuire il fattore a uno o all'altro determinante. Il valore di RR è proprio la differenza percentuale di peso tra i due gruppi, cioè i 'molto' e i 'poco' alimentati, e il CI è la distribuzione del peso in ciascun gruppo. Tutto questo processo può essere ulteriormente affinato, dividendo per esempio ogni gruppo di bambini in 3 gruppi distinti: il primo che contenga il terzo inferiore per quantità di alimentazione, il terzo con il terzo superiore e il secondo in rappresentanza del terzo centrale. Tuttavia, tale divisione è meramente ordinale. Supponiamo ad esempio di aver raccolto i dati di alimentazione di 12 bambini - esprimendola in kcal procapite al giorno - e di aver osservato i seguenti dati, ordinati dal più basso al più alto: 1.200, 1.250, 1.300, 1.350, 1.500, 1.500, 1.550, 1.550, 1.600, 1.700, 1.800, 2.500. Il primo terzile è composto dai primi 4 numeri, visto che 12/3 fa quattro, il secondo dai secondi 4 bambini e il terzo dagli ultimi 4. Tuttavia, osservando i numeri in ciascun terzile, possiamo vedere che nel primo si va da 1.200 a 1.350 kcal, con una differenza massima di 150, nel secondo si spazia da 1.500 a 1.550, ossia con una differenza massima di 50, mentre nel terzo si sale da 1.600 a 2.500, ovvero con una differenza massima di 900. In sintesi, i terzili sono molto disomogenei fra loro e quindi le differenze tra variabile dipendente (es. il peso, ma anche i casi di un determinato tumore) vengono distorti dalle differenze stesse fra terzili. E' poi possibile esercitarsi dividendo la serie in 4 gruppi, ottenendo i quartili".
Un esercizio che però si complica quando gli individui oggetto di indagine siano pochissimi…
"Nei lavori citati gli eventi erano in effetti molto, molto rari, come anche dichiarato dagli stessi autori, al punto che non hanno potuto dividere in quartili la popolazione complessiva, di oltre 56 casi, perché in alcuni quartili non avrebbero avuto alcun caso. Per lo meno, suddividendoli in terzili ne hanno osservato qualcuno".
In termini numerici, qual è il suo giudizio? Davvero salendo con l'uso di glifosate aumenta il rischio di sviluppare LNH?
"In primis, andrebbe stabilito cosa si debba intendere per 'highest' in un lavoro. Si intende il 10% che usa più diserbanti? Oppure per 'highest' dobbiamo intendere il 20% superiore? O magari il 30% superiore? Tutti e tre questi valori sono in fondo 'highest'. Per aiutarci nelle analisi si usano infatti i concetti di percentili, di quartili o di terzili già spiegati nella domanda precedente. Cioè si divide il campione complessivo in sottoclassi, ognuna sottesa da un preciso valore. Tale analisi ha però validità se si supera una certa frequenza di casi per classe. In particolare, se la frequenza è molto bassa, potrebbe non essere dissimile da zero dal punto di vista statistico. E in Andreotti et al. la probabilità, dichiarata, che sia pari a zero è molto elevata. Tale numero va accertato appunto con adeguate analisi statistiche tagliate sugli eventi molto rari".
Quindi si conferma che a torturarli abbastanza i numeri alla fine dicono quello che vuole il ricercatore?
"E' la ragione per la quale i dati si devono usare tutti perché siano affidabili e non solo una selezione di essi. Una volta usati tutti, se ne può descrivere la distribuzione in classi, come han fatto Andreotti et al., ma escludere dati, come han fatto Zhang et al., aumenta moltissimo il rischio di errore. Ovviamente ci riferiamo a serie di dati affidabili. Escludere dati inaffidabili (ad es. raccolti con forti problemi metodologici) è un bene proprio perché insicuri".
Ma allora, davvero chi più usa prodotti contenenti glifosate, più rischia di sviluppare un linfoma non-Hodgkin, oppure è una deformazione statistica quella che afferma ciò?
"Per comprenderlo bisogna tornare all'American health study di Andreotti et Al., presa in considerazione proprio da Zhang nella sua metanalisi. Che cosa si dice in quella ricerca? Che chi è nel quartile superiore ha un valore di RR inferiore a chi ricade nel terzile superiore, sebbene le due distribuzioni prospettino frequenze di patologie a diversi anni dall'uso del prodotto. Ora, se ci si rifà ai dati che ho sopra elencato come esempio su quartile e terzile, si noterà, per definizione statistica, che il terzile ha una media quantilica inferiore al quartile. Se la variabile di risposta nel terzile è superiore a quella del quartile, come accaduto con i LNH in tema di glifosate, allora vuol dire che non sussiste relazione su scala quantilica tra le due variabili considerate, indipendente e dipendente. E Andreotti et al lo dicono chiaramente. In parole povere, all'aumentare dell'uso non aumenta l'incidenza. Aggiungiamo infine che, nel loro lavoro, Zhang et al aggiungono 5 casi controllo e ne scartano 6, senza però dire a quali conclusioni portano i sei scartati…".
Dovendo quindi trarre le fila del discorso a favore di agricoltori e cittadini, digiuni di statistica: la metanalisi di Zhang dimostra che gli alti usi di glifosate sono correlabili al LNH oppure no?
"Purtroppo no. Ma voglio anche chiarire la motivazione del 'purtroppo'. Nella ricerca delle motivazioni di una patologia, l'interesse comune non è attribuire queste motivazioni a un fattore o a un altro. Se un linfoma o anche semplicemente un raffreddore viene aumentato dal fumo o dalla sovralimentazione o dalla esposizione a un principio attivo, non c'è un interesse precostituito a supportare uno o l'altro motivo. L'interesse è trovare quali sono i fattori predisponenti a una patologia e poter intervenire su questi per ridurla. Se il lavoro di Zhang fosse valido, potremmo trionfalmente dire di aver trovato un fattore di rischio per il LNH, oltre agli altri eventualmente già noti. In tal caso, per quanto i LNH siano patologie rare, potrebbe essere accettabile eliminare l'uso del glifosate (o perché no, anche di tutti i principi attivi, ivi inclusi quelli che si usano in biologico) per ridurre l'insorgenza delle stesse. Ovviamente ciò richiederebbe un dibattito in materia. Tuttavia considerare come valida una motivazione che effettivamente non lo è comporta un forte spreco di risorse: si effettueranno molti sforzi per ridurre l'incidenza di una data patologia senza che gli sforzi portino nemmeno vagamente al risultato atteso. Per questa ragione, mi dispiace sinceramente che nessuno dei due lavori abbia osservato una relazione tra patologie e uso di quel determinato principio attivo visto che se ciò fosse stato osservato, avrebbe fornito una buona informazione per la riduzione delle patologie. Lo sforzo da fare è quindi cercare in maniera razionale le vere motivazioni dell'insorgenza di certe patologie".
Esiste un ultimo aspetto che mi cruccia di entrambi i lavori. Andreotti et al. lo avanzano candidamente e riguarda il fatto che non esiste un grande accordo tra dati osservati su cavie e dati osservati sull'uomo quando si parla di alta o bassa esposizione.
"In tutte le ricerche di questo tipo, esiste infatti un forte accordo tra dati osservati a scale diverse (es. colture cellulari, cavie, uomo). Ovviamente, effettuare studi di somministrazione controllata non è possibile sull'uomo per ovvie quanto benvenute ragioni etiche, basti vedere in proposito il film 'The constant gardener', tuttavia ciò è possibile su cavie e colture cellulari dove il controllo delle quantità somministrate volutamente è molto più fine del controllo di quelle assunte involontariamente sull'uomo. Non dibatterò moltissimo qui sulla questione etica del benessere animale, che è indubbiamente un argomento scottante, ma non oggetto di questa intervista. Ora, pur considerando le differenze nella fisiologia tra uomo e cavie, per molte patologie abbiamo risposte simili e per moltissimi studi c'è un accordo tra dato ottenuto in vitro, cavia e uomo. In tutti i casi, ad alte esposizioni sono associati alti rischi di avere determinate risposte (es. patologie, ingrossamenti, espressione genica, etc.). Nel caso del glifosate, ovviamente alte esposizioni in cavie (già predisposte geneticamente ad avere certe patologie) portano ad alte frequenze delle stesse, ma basse esposizioni non portano ad altre frequenze della patologia. Nell'uomo l'esposizione è bassa, anche quella dei gruppi maggiormente esposti nei due lavori è notevolmente più bassa di quella applicata su animali da laboratorio, tuttavia il 'claim' dominante è che debba fare male anche alle basse dosi. E personalmente, non c'è ragione di pensare che non possa, ma ciò dovrebbe essere dimostrato e al momento appare invece l'esatto contrario".
La ringrazio per la dettagliata disamina, ma non è che ora, dopo tutta questa analisi, si beccherà delle accuse di essere al servizio delle solite multinazionali che avvelenano il mondo?
"A scanso di equivoci e di sterili, quanto frequenti, accuse di conflitto di interesse non sussistente, vorrei comunque sottolineare che nella mia attività studio, oltre che la statistica, che è uno strumento fondamentale del mio mestiere, soprattutto tecniche per il controllo dei patogeni, delle malerbe e l'aumento del tenore in sostanza organica del suolo e assorbimento di nutrienti per la pianta sopratutto in biologico. Tra i miei lavori, anche recenti, ho studiato insieme a vari colleghi strategie di semina per il controllo delle infestanti in assenza di principi attivi (e anche con certificazione biologica), selezione di genotipi meglio resistenti ai patogeni per i sistemi biologici - che non possono usare i principi attivi ammessi in agricoltura convenzionale - e tolleranti la competizione con le malerbe. Oppure l'uso di inoculi microbici, anche questi ammessi in bio e ben poco efficaci in agricoltura convenzionale, per l'aumento dell'assorbimento di nutrienti, o la tolleranza agli stress biotici e abiotici e l'aumento della resa delle colture erbacee e ortive. Per queste ragioni, avrei molta più convenienza ad avanzare i rischi, per nulla confermati, legati all'uso di glifosate. Infatti, l'uso di questo erbicida consente l'adozione di due strategie di coltivazione in competizione, dal punto di vista economico, con l'agricoltura biologica. Mi riferisco all'agricoltura conservativa e ad alcuni organismi geneticamente modificati (vietati al momento in Italia) che potendo offrire margini di profitto superiori all'agricoltura convenzionale, possono essere oggetto di opzione da parte degli agricoltori. Tuttavia preferisco perorare quanto abbia una forte evidenza scientifica, senza stare a guardare alla mia convenienza. Avrò forse un conflitto d'interesse al contrario?"
Di solito, infatti, le accuse di conflitto di interesse sono l'unica arma rimasta a chi di conflitti ne ha più che altro coi dati e con le evidenze scientifiche. Ma questo, forse, sarà trattazione di una puntata successiva della serie...
Perché la tossicologia, in fondo, è più semplice da comprendere di quanto sembri.