Il tema chiave dell’inaugurazione del 262° Anno accademico dell’Accademia dei Georgofili, presieduta da Gianpiero Maracchi, è la difesa dell’agricoltura, degli agricoltori e dei redditi delle imprese agricole, che saranno la leva – insieme all’innovazione – per rilanciare un comparto che sta attraversando una fase di estrema difficoltà.

Il messaggio emerge chiaramente dalla prolusione del professor Franco Scaramuzzi, presidente onorario dell’Accademia dei Georgofili, e con “70 anni di attività nelle Università e nella nostra Accademia, cioè nel più antico osservatorio scientifico dell’agricoltura che, senza fini di lucro, continua a focalizzare un ampio orizzonte interprofessionale, interdisciplinare e internazionale sempre più ricco di nuove conoscenze, da vagliare e diffondere con riconosciuta autorevolezza”.
Il comparto agricolo dovrebbe guardare al futuro con ottimismo, a condizione che l’agricoltura torni nell’agenda del Paese e dell’Unione europea. Le potenzialità dell’agricoltura italiana, in rapporto all’ambiente, alla tutela del paesaggio, alla qualità delle produzioni, sono enormi. Sempre che, è chiaro, si torni a dare il giusto valore agli attori della filiera, con particolare attenzione agli agricoltori, e magari si superino istanze ambientaliste fuorvianti.
AgroNotizie propone di seguito un’ampia sintesi della prolusione del professor Scaramuzzi, per l’autorevolezza del relatore e per gli importanti temi trattati, che meritano una particolare attenzione da parte del mondo agricolo, degli scienziati e delle istituzioni.


Un grande errore: demolire l'agricoltura
Improvvide “disattenzioni” e un futuro “sconvolgente”
di Franco Scaramuzzi

Vorrei cominciare dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale e della nostra guerra civile, cioè dall’avvio dell’impegnativa ricostruzione del nostro Paese, ma mi limiterò solo a ricordare alcuni dei più importanti provvedimenti allora adottati, sotto la pressione delle piazze che reclamavano “pane e lavoro” e “la terra ai contadini”. Ad esempio le riforme agrarie, fondiarie e dei contratti, alle quali si aggiunse poi l’abolizione della mezzadria.
Il numero degli addetti all’agricoltura nel 1945 era ancora superiore al 50% della popolazione attiva; nel terzo trimestre del 2014 ha raggiunto il minimo storico del 3,6%.
Si tratta di un passato che è ormai da tempo alle nostre spalle e che non è più modificabile.
Nonostante tutto, nel non facile periodo postbellico, i nostri agricoltori seppero avvalersi delle innovazioni tecnologiche per meccanizzare e valorizzare il lavoro, utilizzando le più avanzate conoscenze della genetica, etc. Le produzioni unitarie aumentarono sensibilmente, andando spesso oltre i livelli del complessivo fabbisogno nazionale. Quell’arco temporale viene infatti ricordato con il nome di “rivoluzione verde”.
Quando nel 1957, con il Trattato di Roma, fu deciso di istituire la Comunità economica europea, furono riconosciuti come prioritari gli obiettivi da realizzare per l’agricoltura.
Gli intenti dichiarati erano quelli di distribuire più razionalmente le attività fra i diversi Paesi, incrementare la produttività, assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola, stabilizzare i mercati, garantire la sicurezza degli approvvigionamenti e assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori. Con quei fini nacque la Pac, che è stata poi riformata più volte, anche violando le tuttora vigenti regole del Trattato di Roma e di altri successivi. Di fatto, l’originaria impostazione è stata rovesciata, riducendo le produzioni agricole e rendendo precari i redditi degli agricoltori.

Una crisi, quindi, assai precedente a quella generale iniziata nel 2007. La Comunità europea ha inoltre imposto direttive, che hanno determinato un progressivo allargamento del tradizionale settore primario, inglobandovi altre attività, quali la pesca. La stessa definizione di imprenditore agricolo è stata allargata, includendovi i contoterzisti che non partecipano ai rischi d’impresa. L’antica e generale multifunzionalità è stata attribuita alle aziende agricole che hanno avuto libertà di svolgere anche attività specifiche di altri settori (commercio, artigianato, turismo, servizi, etc).
Si è così innescata nelle campagne un’impropria e progressiva “agrarizzazione” di qualsiasi attività, perseguendo un indirizzo definito “rurale” (termine che confonde, se usato per distinguerlo dal sinonimo “agricolo”). Sono stati a questo scopo distribuiti cospicui finanziamenti, tratti comunque dal capitolo che, nel bilancio europeo, è assegnato all’agricoltura (oggi ne assorbirebbe circa il 40%). Questi interventi, non solo hanno distratto fondi destinati all’agricoltura, ma anche sottratto manodopera (già carente) nel settore primario. Inoltre, hanno contribuito a far crescere le esigenze edilizie, l’urbanizzazione e la cementificazione delle campagne, con ulteriori riduzioni delle superfici agrarie coltivabili (Sau).
Pur evidenziando questi negativi rilievi, ritengo sia doveroso mantenere l’impegno degli illustri uomini che hanno costruito l’Ue. Senza questo impegno non può esservi Unione e senza unione non esisterà l’Europa auspicata. Il senso unitario di appartenenza all’Europa non esisteva nel nostro vecchio continente ed è ancora debole e fragile.
A partire dal Terzo Millennio, i problemi dell’agricoltura sono cresciuti. Il mondo agricolo è apparso sempre più disorientato e preoccupato, tanto che la stessa Commissione europea decise di fare un “Health Check” sulla Pac.

Franco Scaramuzzi, presidente onorario dell’Accademia dei Georgofili
© Matteo Bernardelli - AgroNotizie

Le “disattenzioni”
Dalla seconda metà del secolo scorso l’agricoltura ha cominciato ad essere investita da un crescente antagonismo di istanze ambientaliste, convinte di dover essere comunque considerare prioritarie, anche nei confronti delle indispensabili produzioni alimentari.
Si calcola che in Italia vi sia una continua e irreversibile perdita di terreni coltivabili (circa 100 ettari al giorno), a causa delle irrefrenate cementificazioni, o delle destinazioni d’uso extra agricolo, non recuperabili. Negli ultimi 50 anni sarebbero stati sottratti alla nostra agricoltura più di 5 milioni di ettari.
Anche il susseguirsi, senza limiti, di divisioni ereditarie provoca una deleteria polverizzazione delle proprietà fondiarie, che divengono tanto piccole da non offrire sufficiente lavoro e reddito; in queste condizioni, sono da considerare superfici coltivabili, ma perse per l’agricoltura di cui parliamo.
In nome di un’infondata e malintesa necessità di assicurare la conservazione del paesaggio agricolo, si è cercato di fare riferimento al dettato Costituzionale, che contempla la generale tutela del paesaggio. Ma la legislazione di quell’epoca escludeva esplicitamente e saggiamente il paesaggio agrario dai vincoli di tutela. Si è cercato di fraintendere anche il Codice Urbani, pubblicato agli inizi degli anni 2000, che parla di conservazione del paesaggio agricolo, ma da intendere nell’unico senso possibile e attuabile, come “conservazione” della destinazione di uso dei terreni coltivati, senza esprimere in alcun modo la pretesa di una impossibile staticità dell’agricoltura. Qualcuno invece ha inteso annullare la libertà imprenditoriale degli agricoltori, coniando normative che prevedono interventi pianificatori verticistici.

Applicare la tassa Imu sui terreni agricoli coltivabili significa fiscalizzare uno strumento di lavoro produttivo (senza distinguere reddito da rendita) e colpire “un settore in evidente stato di crisi”, non è un atto di buon senso e andrebbe abolita. 
Le nostre produzioni alimentari si sono da tempo conquistate una grande rinomanza sui mercati mondiali per le loro qualità, legate a specifiche selezioni, alle particolari tecniche colturali e alle caratteristiche ambientali dei territori di origine. Oggi la situazione è più complessa. Si sono valorizzati i marchi, le denominazioni di origine, i prodotti biologici, etc, ma sono cresciute anche contraffazioni e frodi sempre più raffinate.
Si tratta di un’altra problematica gravemente dannosa e perniciosa, che richiede la massima attenzione anche da parte della Unione Europea, con più forti normative sul controllo dell’origine (e tracciabilità), oltre che delle qualità da esplicitare obbligatoriamente in etichetta.
L’intera umanità sta condividendo la necessità di provvedere alla sicurezza alimentare, a seguito degli allarmi ripetutamente sollevati dalla Fao. L’esportazione di prodotti alimentari dall’Italia avrebbe raggiunto nel 2014 un valore complessivo di circa 34 miliardi di euro. Gli obiettivi dichiarati dal nostro Governo mirano a portarla a 50 miliardi nei prossimi 5 anni. Ma la nostra complessiva produzione nazionale di alimenti primari non è autosufficiente e continua a decrescere. Siamo quindi diventati grandi importatori, sordi alle istanze della Fao alle esigenze della sicurezza alimentare e credo anche alla prudenziale formazione di adeguate scorte. Il “diritto al cibo” che la “Carta di Milano” intende giustamente proclamare deve essere strettamente e concretamente legato alla contestuale enunciazione del prioritario “dovere di produrlo”.
Dobbiamo invece sentirci responsabilmente mobilitati per realizzare una nuova “rivoluzione verde”, questa volta in un contesto mondiale, nel quale il nostro Paese non può rimanere spettatore estraneo.

Non tutti gli alimenti elaborati ed esportati dalle nostre filiere alimentari specificano in etichetta l’origine territoriale dei prodotti primari usati. Si trascura quindi l’importanza dei caratteri qualitativi legati ai nostri territori.
Tutti sono liberi di approvvigionarsi di materie prime sul mercato globale. Chi fa questa scelta non rispetta però gli altrettanto legittimi diritti degli agricoltori che chiedono di segnalare ai consumatori, con chiarezza, l’origine territoriale dei singoli prodotti primari usati.
Attualmente il libero gioco delle parti tra i singoli anelli delle multiformi catene alimentari tende a mettere in difficoltà gli agricoltori, pagati con prezzi inadeguati ai costi dei loro prodotti primari (sia di origine vegetale che animale). Ciò significa costringerli a rinunciare a produrre.
Nessuno può dimenticare, né vuole ripetere, il triste periodo dell’autarchia e credo che non sia semplice rinunciare ai valori di un mercato libero, sostenuto dai Georgofili con grande successo già ai tempi del Granducato di Toscana. L’urgente tutela delle nostre produzioni va cercata innanzitutto con una migliore organizzazione e con accordi interni di collaborazione, anche europei, nel pieno rispetto degli accordi sul mercato globale, sempre rivedibili.
La necessità di una regolamentazione delle filiere alimentari è stata già da tempo evidenziata. Se ne starebbe interessando anche l’Ue, ma per ora tutto è fermo in una troppo tranquilla indifferenza. Un importante obiettivo, di interesse generale, sarebbe quello di attuare accordi di compartecipazione tra tutte le imprese che comunque operano in una stessa filiera per un’equa ripartizione del complessivo valore finale aggiunto.

Un futuro sconvolgente
Con l’evolversi della situazione globale (politica, economica, sociale) nuove realtà stanno emergendo, in un sempre più complesso intreccio di interessi. Non possono sfuggire alla vostra attenzione le pericolose situazioni che lambiscono il Sud Mediterraneo e che ci coinvolgono direttamente con una biblica fuga migratoria da non sottovalutare e da non considerare con incivile indifferenza. Così come non possiamo ignorare i conflitti che stanno esplodendo nel mondo con preoccupante frequenza. La storia ci riconduce a problematiche quali quelle messe in atto dai Russi con l’invasione della Crimea e il tentativo di analoga azione nei confronti dell’Ucraina; a un Medio Oriente che sta facendo risorgere un truce Califfato, rinnegando ciò che Atatürk aveva modernizzato. Preoccupano anche le pretese espansionistiche della Cina con le sue autonome invasioni di Paesi limitrofi, quali presunte aree di propria competenza. Una diffusa instabilità si è innescata per motivi diversi, spesso per folli desideri di potere, ma purtroppo anche per la carenza di cibo e acqua.
Vi sono Paesi, come la Cina, nei quali oggi esistono aree prosperose, accanto ad altre costrette a rimanere in condizioni difficili. La Cina ha legato la sua moneta al dollaro, ha fatto studiare in Occidente (e soprattutto negli Stati Uniti) un numero rilevante dei suoi giovani, ha sviluppato enormemente la propria ricerca scientifica, ha incrementato le proprie attività produttive e commerciali, avvalendosi del basso costo della propria manodopera e non rispettando né brevetti, né regole mondiali sul commercio.

Credo sia doveroso considerare anche la critica situazione interna del nostro Paese, gravato da un debito pubblico molto pesante, una elevata disoccupazione, una diffusa crisi produttiva, una pressione fiscale insostenibile, etc. Le difficoltà da affrontare sono numerose, anche se le potenzialità del Paese sarebbero in grado di farle superare, correggendo gli errori commessi, modificando i criteri di spesa, promuovendo la ricerca, richiamando capitali per accrescere investimenti e lavoro, innovando le tecniche di produzione per renderle sempre competitive.
Oggi si avverte sempre più anche un diffuso declino del senso dello Stato e la mancanza di una unitaria politica agricola nazionale. Il ministro dell’Agricoltura è condizionato dalle decisioni spettanti alla Ue e alle Regioni, oltre che dalle tante pressioni esercitate sul Governo dai cosiddetti “poteri forti”. Si avverte quindi il bisogno di conferire a quel Dicastero l’autorità e le prerogative per poter realizzare il tanto auspicato e atteso indirizzo programmatico nazionale del settore agricolo e dei suoi singoli comparti.

I giovani tornerebbero spontaneamente al lavoro dei campi, anche senza bisogno di costosi incentivi, se si rendesse possibile realizzare un reddito adeguato. Bisogna quindi intervenire subito e con forza per sciogliere i nodi che stanno soffocando la nostra agricoltura, distruggendone l’imprenditorialità e la libera creatività nello sviluppo di innovazioni. Bisogna far rispettare questi principi fondamentali, prima che sia troppo tardi.
Quando si sarà definitivamente usciti dall’attuale grande crisi generale, non si tratterà di un semplice ritorno alla situazione precedente. Saremo chiamati ad affrontare altre nuove realtà, cercare nuovi equilibri, riconsiderare molti concetti. Ciascun Paese avrà sempre più bisogno di un’agricoltura efficiente e dinamica, il nostro non fa eccezione.

Scienza e intelligenza umana
Purtroppo, la nostra organizzazione della ricerca scientifica nazionale è complessivamente statica e frastagliata tra tanti ministeri, mentre i Paesi più lungimiranti incrementano questi investimenti. Gli univoci appelli e suggerimenti scaturiti in materia da autorevoli lavori collegiali del nostro mondo accademico non sono stati finora ascoltati.
Il blocco oscurantista nei confronti della ricerca sugli Ogm rappresenta un immotivato capitolo nero del nostro Paese, purtroppo non nuovo nella storia della Scienza ma sempre deplorato con dovute pubbliche scuse, anche se tardive.
In pochi decenni insieme alla sua millenaria civiltà, è scomparsa anche la parola “contadino” considerata fortemente denigrativa e spregiativamente assimilata a termini quali “bifolco”, “villano”, “cafone”, “rustico”, “buzzurro”, etc. Oggi gli “operai” addetti all’agricoltura sono i “salariati”. La tradizionale e generica figura dell’agricoltore, tuttora abitualmente usata, è meglio definita da quella di “imprenditore agricolo”.
Non si cerchi di tacitare le odierne considerazioni attribuendomi la rassegnata immagine di Cassandra, perché sono invece ottimista convinto delle grandi potenzialità della nostra agricoltura, perché conosco la costanza, il buon senso e i sentimenti che legano gli agricoltori alla terra, ma soprattutto perché confido nella intelligenza e lungimiranza dell’intero mondo imprenditoriale manifatturiero, che non può sentirsi estraneo a quanto si sta cercando di fare per il settore primario.